Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta,
ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante
30 aprile 2023 – IV Domenica di Pasqua
Vangelo: Gv 10,1-10; Seconda Lettura: 1Pt 2,20-25
Fare il pastore non è mai stato facile. E oggi i pastori si trovano ad affrontare una nuova sfida. Il motivo della loro preoccupazione è il lupo, che sta decimando le greggi.
Per noi il nemico del pastore e del suo gregge è il lupo, eppure questo noto brano evangelico non parla del lupo: parla solo di ladri e briganti come potenziali nemici delle pecore.
Perché, a ben guardare, le parole di Gesù sfuggono alla logica consueta: prima si presenta come il pastore, poi come la porta del recinto; da un lato manifesta la preoccupazione del buon pastore per le pecore (erano come pecore senza pastore, cfr Mc 6,34), dall’altro, addita la devastazione operata da ladri e briganti venuti prima di lui. Non ci sono qui sfumature, mezze misure o compromessi.
Sicuramente esiste un contesto storico che ci aiuta a capire.
Giovanni, circa trent’anni dopo la prima stesura del suo vangelo, si trova ormai ad Efeso e vede nell’emigrazione dei giudeo-cristiani dalla Palestina l’uscita del gregge dal recinto; tra i discepoli nascono delle divergenze, alcuni rimangono saldamente legati alla ritualità prevista dalla legge mosaica, altri ritengono necessario che la nuova chiesa sia più focalizzata sull’universale validità della Parola, sulla giustificazione per fede e sull’amore del prossimo. I nuovi cristiani devono quindi imparare a distinguere il loro pastore dall’estraneo; per fare questo, dovranno imparare a riconoscerne la voce in se stessi, perché sarà proprio quell’elemento che il pastore verrà a liberare.
Ad un altro livello, rileggendo Ezechiele 34,1-31, il testo di Giovanni acquista una luce nuova; i destinatari sono farisei e scribi, cioè gli stessi che Ezechiele considera pastori di Israele.
Questi ultimi, a loro volta, come riconoscono la voce del guardiano delle pecore?
Ascoltandola ripetutamente e affezionandosi ad essa. Lo stesso vale per tutti coloro che preferiscono l’insegnamento di Gesù a quello di altri maestri: col tempo la voce del loro guardiano diventa familiare, ed è la porta verso la vita. Non si entra in un recinto, se ne esce e si potrà entrare e uscire, il Signore ha un messaggio di grazia per ciascuno.
I farisei, sotto accusa nella figura di ladri e briganti cui Gesù fa riferimento, sono riconoscibili come tali perché entrano scavalcando il recinto; non entrano dalla porta!
La questione per noi oggi si fa un po’ più complessa. All’epoca di Gesù, si sapeva bene chi fossero i farisei, erano riconoscibilissimi ed erano capi religiosi.
Ma oggi? Dove sono? Chi sono? Chi siamo? In quale categoria annoveriamo noi stessi e gli altri?
Pecora o lupo? Quante pecore in giro? Quanti lupi? C’è un guardiano? La porta la vediamo? O per entrare ci sentiamo costretti a scavalcare un recinto, malauguratamente imposto da chissà chi?
Non sempre siamo ben disposti ad ascoltare. Qualcuno che ne abbia la responsabilità può non essere in grado di assicurare il benessere delle pecore, per la semplice ragione che non ascoltando la voce di Gesù non è neanche in grado d’indicare la porta, ma si sostituisce ad essa.
E questa è la tragedia, perché con il suo fervore, con il suo zelo, casomai per recuperare la purezza di qualche principio, religioso o politico che sia, passa ad essere il rappresentante di un’élite che decide per tutti senza ascoltare nessuno.
Costoro, in genere, godono di un certo prestigio agli occhi della gente, per cui è probabile che vengano ascoltati al posto del pastore, il che può trarre in inganno molte persone, e sarà un disastro se colui che parla scavalca il recinto e intende sostituirsi a Dio.
Il populismo di ogni genere si nutre di questo, per esempio.
Un religioso, invece, può consigliare e cercare di prendersi cura degli altri, ma non può dire loro: “Attraverso di me, Dio vi parla”, perché questo significherebbe arrogarsi un potere che non spetta all’uomo e, insieme, negare la dignità dell’interlocutore; che si tratti di un altro pastore o di un laico, siamo tutti chiamati ad ascoltare e riconoscere la Parola direttamente.
Certo, questo ascolto può, e in certo senso deve, essere mediato da un altro che si renda testimone della Parola, ma è sempre Dio stesso che ciascuno ascolta dentro di sé.
Dio può parlare in vari modi, addirittura attraverso persone che non condividono la nostra stessa fede. Questo è un altro dei misteri della libertà di cui gli uomini possono godere. Il modo, il quando e l’essenza della liberazione appartengono all’unico in grado di non fare da schermo tra l’essere umano e il Padre, il Cristo, colui che ristabilisce la giustizia nella relazione.
Quanto più prestiamo attenzione, quanto più affiniamo il nostro ascolto, tanto più sapremo riconoscere la parola che ci parla e restituisce pace, stabilità e libertà: la dignità cui ogni figlio aspira, certo che qualcuno veglia su di lui, con amore, senza vendette e senza ricatti. Solo così tra i figli potrà nascere un autentico senso di fraternità.
Duemila anni dopo la redazione del vangelo di Giovanni dobbiamo ancora imparare questa storia. Non solo nel contesto della Chiesa di oggi, ma anche nel contesto dell’umanità in generale. Il ruolo dei leader, sia religiosi che laici, deve tener conto che gli uomini sono stati creati per coniugare la propria libertà con il rispetto e l’amore per il prossimo e per la terra sulla quale e grazie alla quale vivono. Ogni deriva autoritaria è in definitiva lesiva del rispetto di Dio.
Dove si collocano, in questo modello, i nostri leader religiosi? Dove ci collochiamo noi stessi, come sacerdoti o laici, o come genitori?
Puoi leggere qui la riflessione del 3 maggio 2020
NB: per info sull’immagine di copertina clicca qui.