Riflessioni Anno A 2019-20

Per la Domenica delle Palme
5 aprile 2020

In compagnia della Parola, al Capitolo 26 di Matteo, mi soffermo su pochi versetti:
“Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”[1].

In quella serata di passione, tutto è estremo: Gesù dà il suo corpo come cibo per la vita, Giuda vende il corpo del suo maestro, probabilmente sapendo che sarà messo a morte.
Le parole scambiate in quel momento rivelano il senso di quel tempo: parole estreme, in una condizione estrema; Gesù parla nel registro “giusto”, adatto alla Sua passione, che sta iniziando.

La passione del Cristo è anche un momento per “depersonalizzare” l’umano; appaiono, come in una sorta d’incantesimo del pensiero, le grandi entità impersonali: la religione costituita, la predicazione, l’impero, la società, il popolo.
La folla si muove oscuramente e i gruppi che la costituiscono vanno e vengono: anziani, farisei, romani, discepoli, seguaci, guardie.
I comportamenti individuali sembrano dissolversi e confondersi nella massa in movimento della grande struttura: le classi sociali, il potere politico, il potere economico, il potere militare.
Chi è in grado di distinguere il vero dal falso, l’onesto dal disonesto, la buona dalla malafede?

A Colui che è stato venduto per trenta denari, la massa cercherà di distruggere dignità e persona: sarà un condannato a morte, colpevole agli occhi della massa, tanto da meritare la crocifissione come qualsiasi altro criminale: ladri, rapinatori, omicidi, sobillatori, ribelli.
Gesù appare come uno di quegli ebrei irrequieti, di fronte ai quali il potere romano non fa particolari distinzioni.
Le umiliazioni fisiche: frustate, trafitture, insulti e torture varie impongono la perdita dell’aspetto umano. Questo continuerà a valere anche nei secoli a venire, dopo il primo dell’era cristiana; rimarrà tragicamente vero che per realizzare un omicidio deciso da molti, ci si assicurerà sempre di squalificare in gruppo la vittima – fisicamente e moralmente – fino a degradarla agli occhi di tutti. Questo atroce delitto viene compiuto solo per falsificare la verità e fare in modo che la colpa reale sia “di nessuno”.

Ma Gesù, il Cristo, resiste a questo movimento.
La Sua Parola rimane sempre personale e si rivolge sempre a qualcuno.
Giuda lo sa, non sbaglia, sa di essere interpellato e, infatti, chiede: “Sarei forse io, Rabbi?”

Come a Giuda, Gesù si rivolgerà, nello stesso modo, a Pilato e al sommo sacerdote.

Quando la tendenza generale è alla dissoluzione di tutti in un collettivo diffuso, la parola rivolta a qualcuno, specificamente, può risuonare tremenda.
E quando la risposta risuona come un rifiuto consapevole, si attua la catastrofe personale e, dentro il mondo, la catastrofe può essere totale.
Gesù si rivolge a Giuda. Giuda sa.
Matteo è l’unico evangelista che parlerà, in seguito, del rimorso di Giuda, quest’uomo che cercherà e troverà sacerdoti e anziani; ma questi religiosi personaggi lo lasceranno solo con la sua disperazione e Giuda si impiccherà.
Cosa avrebbe potuto dire Giuda a se stesso, nel momento in cui l’esatta consapevolezza della sua responsabilità gli si era manifestata in tutta lucidità?
Non sappiamo cosa si disse, ma il suo atto suicida ce lo fa supporre:
“Non posso più vivere, sono di troppo; guai a me, non si può sbagliare fino a tanto!”
Questo suicidio è lo specchio delle parole già pronunciate da Gesù: “Ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”
Gesù rivela prima del fatto, il tipo d’intenzione che travolgerà Giuda, nel mondo, progressivamente e fino al momento del suicidio.

Cosa vuol dire tutto questo?
Continuiamo a raccontarlo, perché anche noi continuiamo a piazzare Giuda all’inferno, come fece il buon Dante Alighieri?
Certamente no: nulla è dato sapere sulla sorte di Giuda nel tempo dell’eternità, tuttavia coltivo uno spiraglio di luce, di speranza.
Anche se abitato da intenzioni catastrofiche, Giuda non fu solo; un altro, il Cristo, aveva pronunciato queste parole davanti a lui, e con lui.
Gesù non inventa nulla, riprende le stesse parole di altri amici di Dio: di Giobbe, che, al culmine della sventura, invocò come preferibile la propria morte al momento della nascita[2], e di Geremia, che maledisse il giorno in cui fu concepito.[3]
Sono Parole estreme, pronunciate davanti a Dio, da servitori di Dio, stremati dall’angoscia.
Gesù le riprende, perché sono già state abitate da uomini di Dio, che hanno avuto l’audacia di lanciarle al Signore, loro vero interlocutore.
Presto anche Gesù sulla croce dirà parole estreme, che un famoso salmista osò scrivere e offrire come preghiera; Gesù griderà: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”.[4]
Parole estreme, gridate in condizioni di disperazione estrema: Gesù le fa sue, diventano anche queste Parola del Figlio al Padre.

Da questo capisco che non esiste più nelle nostre vite un estremo di sofferenza, angoscia o dolore, che non sia stato visitato dal Cristo, che non possa da Lui essere provato, riconosciuto, espresso, compreso.
Misteriosamente, prima che Gesù muoia appeso al legno della croce, Giuda muore appeso ad una corda.
La passione ce lo mostra: nessun essere perso ai confini dell’umano, del dicibile, del fattibile, è solo. Cristo si avvicina a tutto, a tutte e a tutti, e pronuncia ogni parola, tutte le parole.
Anche quelle della solitudine, dell’abbandono, del dolore; non ci sono parole scomposte o parole sbagliate. Il grido verso Dio esprime tutta la nostra umanità. Così, com’è.

Gridate, se volete gridare, urlate il vostro dolore, anche nell’oggi in cui molti sono in lutto, ‎piangenti per genitori o parenti o amici portati via dal virus, ma vi prego gridate rivolti al Cristo.
Il grido sale anche oggi dalla terra ed è ancora la nostra umanità che grida e prova, anche nello sconforto, a rivolgersi come può al Padre, in compagnia del Cristo, e con le sue parole.

[1] ‎Mt 26,24.‎

[2] ‎Cfr Giobbe, capitolo 3.‎

[3] ‎Ge 20,14-18.‎

[4] ‎Sal 22,2.

Per Pasqua
12 aprile 2020

Vuoto e crisi

La sospensione generale delle celebrazioni liturgiche alla presenza fisica del sacerdote e della comunità dei fedeli fa emergere alla mia attenzione due questioni che mi stanno a cuore. 
Da una parte la sospensione colpisce la tendenza idolatrica di un certo ethos del cattolicesimo: come fare ora, che siamo impediti a godere della presenza reale del Cristo nella Messa e proprio nel luogo di culto edificato in Suo Nome?
Dall’altra parte la sospensione ferisce l’identità della Chiesa cristiana e missionaria, nella sua convinzione di essere l’unica autentica beneficiaria dell’Alleanza: come fare a meno delle celebrazioni liturgiche, fonte di testimonianza di cui si sostanzia la funzione sacerdotale dei presbiteri?
La risposta alla prima questione non ha tardato ad arrivare: seguiamo la Messa alla televisione o in diretta live sui social network; la domenica o anche tutti i giorni.
La risposta alla seconda questione è meno evidente, tuttavia suona più o meno così: lavoriamo affinché i fedeli possano quotidianamente sentire la vicinanza dei loro pastori e usufruire di un sussidio per la preghiera nella “chiesa domestica”.
In qualche modo è ormai chiaro che esiste una chiesa domestica dislocata nelle case dei cattolici.
Ora ci troviamo in un periodo particolarissimo: una Quaresima dentro un tempo storico di quarantena.
La dimensione assoluta del sacrificio pasquale s’interseca con la dimensione relativa della coercizione alla riflessione personale, priva di confronto reale, non filtrato da dispositivi elettronici.
Siamo nella Settimana Santa.
Cosa si celebrerà domenica?
La risurrezione del Cristo.
Bene!
Si dice che la domenica abbia sostituito lo Shabbat. In realtà, lo Shabbat esiste ancora per noi, non è stato trasferito alla domenica, ma noi lo viviamo una sola volta l’anno nel Sabato Santo: giorno segnato dalla sospensione di ogni celebrazione.
È un giorno “aliturgico”, che non abbiamo imparato ancora a vivere: il Nazareno ha esalato l’ultimo respiro, viene sepolto, si entra nella grande notte della morte, nell’oscurità di ciò che non sappiamo ancora, ma che tendiamo a riempire con l’introduzione di “paraliturgie”, come il rito della sepoltura di Cristo, celebrato il Venerdì Santo in serata, tendente ad occupare progressivamente anche la mattina del Sabato Santo.
Cerchiamo di riempire il grande vuoto della mancanza, la desolazione di essere senza luce, senza vita, senza amici, perché privi di Colui che ci aveva detto di essere il figlio del Padre.
Questa percezione di dolorosa mancanza è così diversa dal non poter partecipare alla Messa e alla celebrazione del rito eucaristico?
Può veramente essere lenita davanti ad uno schermo o davanti ad una telecamera?
Schermo e telecamera sembrano adesso l’unica interfaccia della vita comunitaria della Chiesa.
Poniamoci una domanda – adesso abbiamo il tempo: da dove viene la vita delle nostre liturgie?
Da dove viene questa “presenza” alla quale ci teniamo attaccati, come aggrappandoci ad essa, perché la pensiamo solo come il contrario dell’assenza?
Da dove proviene il Cristo Risorto, se non dall’assenza, se non dall’invisibile, se non dalla morte, se non dalla mancanza?
“Oggi c’è un grande silenzio sulla terra”, leggiamo nella Liturgia delle Ore del Sabato Santo: è da quel grande silenzio che la Parola ci (ri)torna.
Perché allora tutta questa paura dell’assenza?
Perché non possiamo entrare dentro questa mancanza?
Forse perché, contrariamente a quanto professiamo, non abbiamo conservato lo Shabbat?
Forse perché non sappiamo, o non abbiamo mai saputo, che cosa fosse, com’era e cosa volesse dire fermarsi?
Fermarsi in tutto, cessare di attivarsi, perfino per ragioni pie.
“Fermatevi e sappiate che io sono Dio”: Salmo 45,11.
Ci fermiamo la domenica, ma per celebrare qualcosa che è diventato un “oggetto” della fede, mentre il comandamento dello Shabbat – un comando divino, inseparabile dal primo comandamento, che ci chiama ad ascoltare ed amare il Signore, il solo Signore, perché è il Signore – questo comando è caratterizzato dall’assenza di ogni altra tematica, di ogni altra ragione, di ogni attività. Il comando è tutto quel che c’è nel grande sabato:
“Fermatevi e sappiate che io sono Dio.”
La crisi che stiamo attraversando mette a dura prova il logos e il pathos cristiano: la compensazione artificiale dell’assenza dei sacramenti, proposta a volte frettolosamente sui social network, manifesta meno un bisogno reale, che una forma di patologia in relazione ai segni della fede.
Da quando possiamo separare i sacramenti dalla comunità che li celebra?
Se la comunità non può riunirsi, prima di fare spettacolo, approfittiamo di questo grande sabato per interrogaci sul nostro rapporto con i segni della fede, con l’istituzione e con il sacerdozio, se siamo sacerdoti. Interroghiamoci sul nostro battesimo, sul nostro rapporto con il Cristo.
Non rimpiangiamo che “la Pasqua di quest’anno non sarà celebrata”.
Perché siamo sempre “a Pasqua” e già ora è “a Pasqua”.
Siamo da sempre nel triduo pasquale. Siamo da sempre nel grande sabato. Come il Cristo, già vittorioso. Con il Cristo, già risorto.
Per la prima volta da molto tempo, possiamo davvero sperimentare cosa sia il Sabato Santo. Possiamo vivere un sabato senza fine, non sacramentalmente, ma esistenzialmente, come i discepoli.
“Lo sposo (ci) è stato tolto. Ora digiuniamo”.
Non lamentiamoci: abbiamo bisogno di meno “indulgenze” e di maggiore lucidità.
Anche di decenza abbiamo bisogno. Dopo l’abuso arriva il deserto.
Non c’è idolo, maschera di divinità tuttofare, garante delle umane missioni e compromissioni, sempre sorridente, sempre accogliente, e sempre non troppo esigente.
Non c’è divinità a nostra misura, o, come direbbe Dietrich Bonhoeffer, dio dalla “grazia facile”, da sacrificare in spettacolo quotidiano sui nostri schermi.
In questo momento c’è un’accusa da frantumare con la forza abbagliante della Parola che ritorna: l’accusa è quella di aver scelto l’apparenza del bene, l’idolo piuttosto che il vero Dio.
Lo Shabbat in questo senso è una crisi: una prova che obbliga a discernere e invita a cambiare, a vivere l’indomani, ma diversamente.C’è ben altro da temere che il “sistema” (sanitario o finanziario) collassi: il peggio sarebbe uscire da questa crisi come ci siamo entrati: immaginando di vedere. (Cfr Gv 9,41).

Per l’Ottava di Pasqua
19 aprile 2020

Toccare con mano

Domenica scorsa, giorno di Pasqua, il Vangelo ci ha riferito dell’atteggiamento di fronte alla tomba vuota di un discepolo anonimo, designato soltanto come “colui che Gesù amava”, chiamato anche “l’altro discepolo”. Colui che vide e credette. Affermazione spontanea e concisa. 
 
Non si può reagire più velocemente! 
 
Oggi lo stesso evangelista ci parla dell’atteggiamento di un altro discepolo, questa volta chiamato e soprannominato, Tommaso, Didimo (gemello). [1] 
“Se non metto la mano … no, io non ci credo”: questa è la logica di Tommaso. 
La sua è insieme un’affermazione e una reazione, che durano da otto giorni, rappresentando una condizione della mente e del cuore. 
L’altro discepolo vede, eppure apparentemente non c’è niente da vedere. 
Vede, cosa? Non si sa. Lui crede. Punto e basta. 
Tommaso il gemello, invece, vuole la prova: gli sarà concessa. 
Il primo crede in assenza della prova, il secondo ha bisogno dell’evidenza dei sensi ordinari, della prova materiale. 
Sono due uomini diversi, non due comportamenti all’interno della stessa persona, i testi non dicono che a volte siamo nella condizione dell’uno, a volte dell’altro o in entrambe. 
L’altro discepolo: sono io … forse tu? Tommaso il gemello: non sono io … forse neppure tu? 
Gesù, con un garbato rimprovero al secondo, loda il primo: 
“Perché mi vedi, credi. Beati quelli che non hanno visto e che hanno creduto.” 
La questione non è misurare la volontà più o meno buona di accettare la risurrezione di Gesù. 
La questione è radicalmente altra: quella della personale attitudine dei discepoli – e nostra – a “vedere”; a vedere oltre l’evidenza materiale e razionale. 
Tommaso non si fida di ciò che dicono gli altri, vuole toccare con mano, perché non vede quello che gli altri vedono, vuole “provare” da solo, dopo aver rifiutato di credere alle parole degli altri, come chi, forse a ragione, non vuole sottomettersi per partito preso all’esperienza altrui; quindi, chiede, esige di toccare, di metterci le mani sopra. In questo modo ritiene di poter credere all’esperienza altrui, di afferrarne la realtà oggettiva. Il comportamento di Tommaso tende ad abolire la distanza tra l’assoluto e il relativo in modo che non ci sia nulla di non provato. Questa logica, che in fondo è quella del metodo scientifico, non tiene conto della possibilità che la capacità di vedere di cui parlano i vangeli sia qualcosa presente in tutti gli uomini, ma non in tutti continuativamente funzionante. Diciamo che somiglia un po’ ad un talento specifico: tutti lo hanno, molti lo scoprono, alcuni lo esercitano, pochi lo portano a perfezione.Mi chiedo, cosa ha visto Tommaso di Gesù durante il discepolato, se ora deve visitare le sue ferite per autenticarlo?Forse, di fronte allo scandalo della crocifissione, il dolore, l’amarezza, il senso di abbandono provati diventano una condizione fissa, apparentemente uno stato oggettivo immutabile.In fondo non sono rari coloro che vedono in se stessi e negli altri solo le tracce delle disgrazie e sembrano quasi essere infastiditi dall’arrivo di nuove, buone notizie. Sembra come qualcuno li volesse distogliere dalla commiserazione e disturbare la loro sofferenza.Ci sono persone che, incollate a questa abitudine, divenuta quasi uno stile di vita, non perdono mai un’occasione per partecipare ad un funerale, per poi costruire mausolei e diventare autori di elogi funebri, facendo così zampillare su se stessi le qualità che prestano agli scomparsi.Saranno questi quei morti che bisogna lasciar andare a seppellire i loro morti?Al culmine di questo processo, nel degradarsi del bisogno della prova, subentra un livore sordo e sarcastico, che si diletta delle battute d’arresto del mondo, per poi sbeffeggiare i presunti fallimenti altrui.Costoro preferiscono l’inerzia al movimento, l’immobilità alla creatività, l’intorpidimento alla passione. Il loro motto è: “Qui da noi abbiamo sempre fatto così!”L’Altro non risuona nelle loro parole.Costoro – come Tommaso avrebbe forse continuato a fare, se il Cristo non lo avesse liberato con un atto “educativo” veramente divino, un colpo da Maestro, solo a Lui possibile – costoro dicevo, controllano Dio, valutano gli uomini, chiudono la parola, dettano le verità.Nel Vangelo hanno l’impronta delle istituzioni e del potere, le caratteristiche dei farisei, dei maestri della legge e degli scribi: quelli che legano pesanti fardelli sulle spalle degli altri, perché conoscono il bene e il male. Didimo, prima che il Cristo Risorto lo tocchi, è così. Già: perché in realtà non sarà Tommaso a provare il Cristo, ma il Cristo mediante l’ennesimo abbandonarsi alla volontà del Padre, davanti all’incredulità, proverà Tommaso.Tommaso faceva molta fatica a vedere la via, la vita, la verità, probabilmente perché ne sapeva ancora molto poco. Come avrebbe potuto ammettere e accettare ciò che gli altri discepoli gli raccontavano della vita di Gesù, quando lui stesso era così poco vivo?Gesù risponderà alle lamentele di Tommaso: lo autorizzerà a mettere in atto la volontà di toccare le sue mani e il suo costato, perché il dono della vita va certamente oltre la ristrettezza delle vedute umane. 
Tu vuoi mettere la tua mano su di me? Fallo! Sarai stupito – sembra quasi suggerire l’atteggiamento di Gesù – Tu non sai dove questo ti porterà…E accade il grande avvenimento: Tommaso improvvisamente sperimenta un Altro di fronte a lui: pensava di toccare un uomo, e invece si trova faccia a faccia con Dio: Altro assoluto rispetto ad ogni attesa.I fori nelle mani dell’Uomo Risorto rendono le mani di Tommaso impossibilitate a prendere, incapaci di afferrare, di appropriarsi del dono attraverso la prova. Tommaso voleva mettere le mani sulla carne dell’Altro: impossibile, non si possono mettere le mani sulla carne liberata, sulla Vita, sull’amore. 
La ferita nel fianco del Redentore produce uno squarcio nel guscio di Tommaso, uno spazio, un posto per “essere al fianco”, per ritrovarsi al fianco, e finalmente vedere con occhi di altra natura chi è veramente il Cristo, che crea la distanza per mettersi in presenza dell’altro, lì dove la comunione può avere luogo.Beati quelli che non hanno visto e che hanno creduto.Beati coloro che credono senza mettere le mani sull’uomo e su Dio.Coloro che non hanno visto e che credono si renderanno conto.

Ora, tutti gli altri sono avvisati: possono essere portati dove non volevano andare.

Per la Terza Domenica di Pasqua
26 aprile 2020

Fece come se…

Due discepoli fanno strada.
Si allontanano dagli avvenimenti tristi e sconvolgenti che hanno vissuto negli ultimi giorni a Gerusalemme. Vanno. Per la loro strada.
Pellegrini, avanzano, continuano, vanno avanti con la loro vita, vagano per la loro storia.
Gesù si avvicina, viene a loro, si fa prossimo, cammina con loro: colui che hanno perso, l’altro, l’improbabile, li raggiunge. L’atteso si presenta quando non lo si aspetta più. Lo sperato appare quando non lo si spera più. Presenza reale, sorpresa, nel cuore dei nostri dibattiti e dei nostri combattimenti.
Qualcuno, là, rianima il cuore: miracolo della relazione autentica con l’altro, che fa avanzare in sua compagnia; un altro, là, che conforta e riconforta. Parola che dona di intendere, di comprendere, di ricominciare.
Egli fece come se dovesse andare più lontano…
Non c’è finzione qui, ma al contrario intento vero. Gesù non gioca. Il testo mostra una verità profonda. Gesù non simula il sorpasso, non nasconde che sta ancora facendo strada. Precede sempre, in Galilea. Cammino aperto: via, verità e vita. Dio non si ferma; desidera, prepara costantemente l’oltre: va oltre.
“Fece come se…”: è il velo prima dello svelamento, la sfocatura che precede la messa a fuoco, la nebbia del mattino prima della luce piena, l’ingarbugliato, precursore dell’evidenza. Delicatezza che precede la rivelazione. Cristo non si impone mai, rispetta in senso assoluto la decisione dell’altro, nell’attesa appassionata dell’invito; pronto, se l’uomo non lo chiede, a scomparire nella notte – nella riserva infallibile di se stesso per la libertà sovrana dell’uomo, nello scrupolo pudico per lo spazio dell’altro, che non viola lo spazio altrui. Dio errante, non riconosciuto, preparato al rifiuto. Non mette mai la mano sull’uomo.
Liberi noi, a immagine di Dio!
I due viaggiatori si sforzano di trattenere l’ospite: sta calando la notte ed è bello stare lì; vogliono ancora e ancora la presenza e sentire il loro cuore animato. È questa l’ora delle solitudini che temono l’abbandono. Diventa momento fatto di pane, di comunione, che consacra la conversazione, di riposo e di risposte.
Gesù, compagno nella condivisione del pane, ospite riconosciuto nel dono della propria carne, non può essere scoperto che nel culmine della sua incarnazione: dono di se stesso intero, corpo e sangue.
La manifestazione si svela. L’epifania si scopre nello stesso momento in cui si nasconde. Gli occhi dei due si aprono per non vedere più che loro stessi, uno di fronte all’altro. Capiscono che d’ora in poi il segno, il sacramento, è il fratello.
Questa comunione li rimette sulla strada, ripartono, confermati – ora – nelle loro vite: attraversano l’oscurità, corrono per confermare la loro comunità.
È il mistero delle nostre Eucaristie; ma spesso gli occhi, invece di aprirsi, sono accecati da un’abitudine quotidiana e banale. Dio – vulnerabile, in cerca di uomini – possiamo invitarlo, ma non tenerlo o conservarlo. Non lascia posare la mano su se stesso, fugge, fuori da ogni giogo o gioco, nell’inafferrabile.
Dio libero, a immagine della sua immagine…
E liberi noi, a sua immagine…

Per la Quarta Domenica di Pasqua
3 maggio 2020

Io sono la porta.

Le espressioni usate da Gesù per dirci chi è ci risultano familiari.
Alcune sono chiare e immediatamente comprensibili: io sono la via, io sono la vite
Altre sono più astratte: io sono la verità, la vita …
Altre ancora sono delicate: io sono il buon – bel – pastore
Quella di oggi, io sono la porta, è concreta, semplice…
E mi sorprende.
La Pasqua – come la porta – è un passaggio, anzi è IL passaggio: l’attraversamento di una condizione che sembrava impossibile superare; l’immagine simbolica di questo evento è l’uscita inaspettata da una situazione di schiavitù verso una terra promessa dove scorre latte e miele.
Ho ardentemente desiderato mangiare questa Pasqua con voi (Lc 22,15) – dice Gesù ai suoi discepoli.
Gesù ha desiderato mangiare la Pasqua con i suoi discepoli.
Cosa può voler dire mangiare IL passaggio, se non assorbire la traversata, ingoiare la frontiera? L’attraversamento non si può evitare, ed è proprio in questo passaggio che il Cristo si fa porta.
Come?
Assorbendo la maledizione, aspirando la colpa, assimilando il peccato. È così che distrugge tutto il male: con la Sua morte. Egli compie così l’opera, la completa, la “porta a compimento”, consumando il male; attraversa tutti i mali, affinché altri uomini possano attraversarli con lui, dietro di lui. Egli cammina alla loro testa.
Seguire le sue orme significa diventare capaci di trionfare sulle nostre schiavitù e ottenere la libertà, per saltare dalla distruzione alla vita.
Se qualcuno viene attraverso di me, sarà salvo – dice Gesù.
Il vicolo cieco della morte diventa una porta: il vicolo cieco del nulla si trasforma in apertura; la tomba non è più occupata, rimane vuota. Il passaggio è definitivo, perché in quel momento il cielo attraversa la terra. Non viceversa. 
Il Cristo trasforma e supera l’antica Pasqua ebraica; Egli consuma, bruciandolo come sterpaglia, tutto il male del mondo, perché l’ha già preso su di sé, l’ha già subito – compiutamente – attraverso il supplizio della croce.
Ecco perché se uno entra attraverso di Lui, sarà salvo.
Lui, la porta, ci fa liberi, ciascuno, di entrare e uscire: Gesù non è il portiere o il guardiano, non è la serratura. Non è la chiave. È la porta. E la porta è senza potere: non decide chi passa. Si lascia attraversare.
Io sono venuto perché [le pecore] abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Non c’è altra porta. Non ci sono altri, nessun altro. Né la Vergine Maria, né l’apostolo Pietro, e neppure i suoi successori. Non c’è altra porta: né un’istituzione è porta, né un sacramento può essere porta: solo il Cristo.
Con Lui attraversiamo l’invalicabile, per andare verso la sorgente della vita.

Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca; mi guida per il giusto cammino. Su pascoli erbosi mi fa riposare (Salmo 22).

Per la Quinta Domenica di Pasqua
10 maggio 2020

“Io sono la via, la verità e la vita.”

Sono parole impegnative. Per un giovane, per una famiglia, e anche per una Chiesa.
Cosa vogliono dire? Escludere altri, altre possibilità?
Sentire che esiste una via, una verità, una vita, non è forse pretesa eccessiva?
Come intendere e come vivere in questa Chiesa che afferma Dio essere conoscibile solo in Gesù il Cristo? Non è folle, scandaloso o pretenzioso operare discriminazioni tra religioni, tra filosofie, tra culture? Fare affidamento solo su una e una sola? Non riscontriamo, per caso, indizi, tracce e prove tipiche di un movimento settario?
Provo a rileggere.
Io sono la via, la verità e la vita.
“La via” è una possibilità di cammino aperta, l’invito manifesto ad intraprendere un percorso. Questa parola è la prima delle tre e nella Bibbia ciò che viene prima dà significato e sensi a quanto segue, come nel decalogo e nelle beatitudini: l’inizio è decisivo, è la chiave interpretativa.
S’intraprende la via ed è il cammino stesso che orienta, costruendo a poco a poco un percorso, quello di ciascuno di noi.
Se Gesù avesse detto per prima cosa: “Io sono la verità”, l’affermazione centrale avrebbe privilegiato il dogma, l’ideologia, il fondamentalismo, l’integralismo. Se avesse detto per prima cosa: “Io sono la vita”, l’affermazione avrebbe privilegiato il pensiero morale, sia in senso “pro-vita” che transumanista.
Io sono la via: è questa la Parola prima del contesto evangelico di questa domenica. Non può che trattarsi di imparare a camminare sui sentieri del Cristo, seguirLo come ricerca continua, in un processo che diventa progressione e approfondimento allo stesso tempo e ci porterà dove non sappiamo ancora mentre il nostro passo lascia impronte sul terreno.
Tutti sono chiamati a percorrere la via, a intraprendere il cammino, per conoscere e per incontrare il prossimo. Siamo invitati ad andare avanti, per scoprire un orizzonte nuovo che al momento non vediamo, o almeno, non vediamo una volta per tutte, ma passo dopo passo.
Seguire il Cristo è un cammino: non è una legge, non è un obbligo.
Gesù è la via di “colui che pratica Dio”, di chi pensa e agisce in quella direzione. Non dobbiamo invertire il senso: Gesù non è il Dio che ci frequenta e diventa un’occasione pratica per vivere: non è una persona potente da utilizzare. Cristo non è un modello umano da imitare, né un despota da subire, ma è il Dio che fa andare avanti, malgrado la nostra originaria pulsione all’inerzia.
Per i giovani e per i meno giovani, la fede cristiana non si dà come un’opinione valida una volta per tutte, che uno avrebbe o non avrebbe: la fede cristiana è una relazione, un processo, un cammino che Gesù Cristo apre, un percorso in compagnia del Dio vivente che si manifesta nelle donne e negli uomini che incontriamo, nelle situazioni che attraversiamo.
Camminiamo, ma non sappiamo dove il cammino ci condurrà, verso quale punto d’arrivo siamo diretti: la fede cristiana non si dà come un’assicurazione sulla vita, ma come un salto e un cammino continuo di cui non si conosce mai il seguito.
“Io sono, il cammino, e chi mi ha visto ha visto il padre”, dice Gesù.
Due discepoli reagiscono: Tommaso obietta: “Signore, non sappiamo dove stai andando”, e Filippo chiede direttamente l’impossibile: “Signore, mostraci il Padre e questo ci basta”.
Tutti potremmo avere l’una o l’altra delle due reazioni.
Tommaso è presente fin dall’inizio, ma non può credere alla risurrezione: è l’agnostico di oggi, sincero e scettico, ha bisogno di ragioni ed evidenze palpabili per credere.
Filippo è una di quelle persone che abitano la frontiera, prossimo dei Greci, che moltiplicano e declinano la rappresentazione del divino in tante forme. Filippo è il sincretista, per il quale c’è qualcosa di vero in tutte le religioni e in tutte le culture, ma a condizione che si possa dare al divino una funzione specifica, una faccia e un destino: il dio che porta fortuna, salute, bellezza, o che protegge quello contro quell’altro e viceversa.
Si tratta sempre della stessa tendenza che ci attraversa anche oggi. Di fronte alla necessità di operare una scelta, ogni giorno possiamo tendere a trincerarci dietro certezze o mode che sembrano o propongono di aiutarci.
“Io sono la via e chiunque mi ha visto ha visto il Padre”.
In Gesù, Dio si è rivelato contro l’evidenza e contro le opinioni che conferiscono al divino ogni “superpotere”.
In Gesù il Cristo, siamo invitati a camminare sulle vie del Dio vivente, che si dona nell’infinita ampiezza di un orizzonte senza confini e allo stesso tempo dentro la fragilità della condizione umana di ogni giorno.
Il cammino umano di Gesù lo condusse verso una morte violenta e prematura. La buona notizia viene controcorrente, letteralmente contro la corrente delle nostre rappresentazioni culturali di Dio. Colui che dovrebbe venire per elevarci oltre i limiti della nostra condizione umana è colui che viene ad unirsi a noi per camminare con noi, palpabile proprio lì dove la pianta dei nostri piedi tocca la terra, nei nostri passi, nei capricci e nelle tristezze della nostra vita come nella sua felicità.
Questo percorso continua a sconvolgere le nostre immagini di Dio e tocca le nostre vite.
La casa del Padre non è prima un al di là della fede e della vita, non è l’attesa di un’altra vita, ma la vita stessa nella sua relazione di amore e fiducia tra il Dio vivente e ognuno di noi.
Forse siamo persi nella ricerca di un senso, di Dio, nella paura, nella ricerca ossessiva di un orientamento evidente, identitario, certo, sicuro, che ci contraddistingua dagli altri.
“Io sono la via” dice Gesù: il cammino che costruisce, nella verità e nella vita; un cammino autentico, seguendo passi che non chiudono in una cittadella, ma si aprono verso la libertà, a servizio di coloro che incontriamo e con noi camminano.

Per la Sesta Domenica di Pasqua
17 maggio 2020

Io pregherò il Padre
ed egli vi darà un altro Paraclito
perché rimanga con voi per sempre.

Gesù è il primo Paraclito; un altro Paraclito è promesso, dopo di Lui.
Un altro che sarà come Gesù e sarà presso coloro che lo amano: con loro e in loro, non li abbandonerà e non li lascerà orfani.
È una promessa: una promessa che ci riguarda.
Forse abbiamo difficoltà a considerarla tale, perché non capiamo cosa sia il Paraclito.
In tante traduzioni, si trova la parola “Consolatore”,  in altre “Difensore”.
Nel Vangelo di Giovanni, cinque parole definiscono il ruolo del Paraclito:
assicura la presenza dell’Assente, ovunque e sempre (14,16-17); ha una funzione “memoria” e “interpretazione” (14,25-26); assiste i credenti nel loro ruolo di testimoni (15,26-27); ha una funzione “giudizio” (16,8-11); ha un ruolo centrale nel compimento della verità (16,13-15).
In effetti il termine Paraclito può risultare poco comprensibile, perché è una semplice traslitterazione, non una traduzione, del corrispondente termine greco, che potremmo rendere con “Colui che è chiamato presso qualcuno”; tradotto in latino diventa “advocatus”, in italiano, “avvocato”, in ultima analisi colui che è chiamato per stare al fianco, per difendere.
Il solo significato legale è naturalmente riduttivo: il Paraclito è anche colui che assiste, consola, sostiene nelle prove. Il significato è molto ampio e forse anche per questa ragione le Bibbie moderne si astengono dalla traduzione.
Tuttavia, il significato in ambito legale può esserci d’aiuto per migliorare la comprensione delle nostre esperienze di vita.
Può succedere di sentirsi accusati, di vivere esposti agli occhi degli altri come in una prova permanente. Accade anche di assuefarsi alla convivenza con una “cattiva” coscienza, per non aver raggiunto obiettivi prefissati. Succede, accade.
Gesù annuncia che lo Spirito promesso sarà l’avvocato interiore, l’avvocato contro ogni accusa.
L’apostolo Paolo usa la stessa immagine (Rm 8): “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio? Chi condannerà?”
“Dio giustifica”: assicura la difesa. Qualunque sia la nostra situazione, c’è “un avvocato” assai particolare su cui contare.
La comunità di Giovanni attraversava la persecuzione: qui il “mondo” intenta la causa, accusa, porta in giudizio; i discepoli subiscono la stessa persecuzione del Maestro, nel processo che il mondo istruisce accusandoli di essere eretici, sacrileghi, sobillatori di animi, ribelli, la promessa del Paraclito è al contempo sostegno essenziale e certezza della difesa.
Il testo parla a tutti coloro che sono perseguitati.
Parla anche a noi, che non siamo perseguitati?
Sì. Può aiutare ad essere più audaci nel testimoniare la speranza di fronte all’indifferenza circostante.
Un intero catechismo ha insegnato che “la voce divina è la coscienza”, peccato che per molti fosse solo una “voce accusatrice”. Molti cristiani hanno vissuto e vivono sentendosi costantemente sul banco degli imputati. Forse vale la pena ricordare che “l’accusatore”, nel testo ebraico del vecchio testamento, è Satana.
Il Paraclito – l’Avvocato – è invece l’anti-Satana, colui che, non scalfito da alcuna voce accusatoria, difende e solleva.
Il Paraclito è anche chiamato “Spirito della verità”, è Colui che ricorda la verità ultima che evidentemente non risiede nei nostri successi o fallimenti, realizzazioni pratiche o teoriche, colpe o meriti. La nostra verità essenziale consiste nell’essere figli di Dio.
Quando la cattiva coscienza continua a opprimere, a volte anche dopo e nonostante il perdono divino, può succedere di riuscire ad ascoltare il nostro avvocato interiore e riposare su di lui. È molto bello. C’è bellezza in questo sentimento.
Quando si dispera di raggiungere l’obiettivo, quando non ce la si fa proprio più, quando ci si sente deboli e oppressi dai nostri fallimenti, ascoltare il Paraclito illumina la coscienza, restituisce la pace, dona il coraggio di continuare a camminare nella “verità”. Spezza le catene.
Al contrario, quando la vita è troppo pesante da sopportare, si insinua la sensazione che Dio stesso sia un accusatore, che voglia farci del male, come se ci inseguisse o controllasse, quasi a prendersi gioco di noi.
Nelle avversità possiamo essere ingannati dall’immagine di un Dio avverso. Giobbe ne è l’esempio, quando al capitolo 16, nella sua notte oscura, dice: “Dio mi consegna come preda all’empio, e mi getta nelle mani dei malvagi. Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio.”
Ad un certo punto, però, Giobbe fa appello a Dio, contro Dio stesso, percependo un Difensore celeste che abbatterà tutte le sue rappresentazioni negative di Dio: “Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei cieli, il mio mallevadore è lassù; miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti, mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio, perché difenda l’uomo davanti a Dio, come un mortale fa con un suo amico”. È l’inizio del risveglio.
Il Paraclito, l’avvocato interiore promesso dal Cristo, consente la difesa delle difese, quella che sbriciola le rappresentazioni di un Dio accusatore e distruttivo.
La venuta del Paraclito, non significa che noi non commetteremo più errori o che non li abbiamo mai commessi veramente, è la certezza che in ogni momento siamo in grado di aderire alla nostra verità ultima. Nessun crimine efferato, nessuna accusa, nessuna condanna possono toglierci la nostra essenziale natura di figli di Dio, nati per amare. Possiamo sbagliare, anche gravemente, ma in ogni momento possiamo essere liberati dalle catene, possiamo alzarci e muovere il primo passo sulla via della verità e della vita.
Ti auguro e mi auguro di ritrovare ad ogni istante questa certezza, questa pace, che è donata ad una sola condizione: “Amatevi gli uni gli altri. Dall’amore gli uni per gli altri, tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli”.
Se Gesù è il Paraclito e lo spirito è un nuovo Paraclito…non c’è due senza tre…allora, io per chi o per che cosa sono “ad-vocatus”?

Per l’Ascensione
24 maggio 2020

L’impronta

In Tanzania, una cinquantina di anni fa, conservate sotto la cenere vulcanica, furono trovate impronte di ominidi: queste impronte avevano circa trentaseimila secoli: segno che i nostri molto lontani antenati camminavano su due piedi, erano già capaci di sostenersi e muoversi in posizione verticale; guardavano il cielo; le loro mani erano libere per la tenerezza e la violenza, la preghiera e la creazione.
Cinquantuno anni fa altri uomini camminavano sulla luna, lasciavano tracce dei loro passi e interrogavano lo spazio.
Tra questi due eventi, i discepoli di Gesù videro il loro maestro scomparire nel cielo.
Fino a quando il piede poggia sulla sabbia, non lascia impronta visibile; solo quando è tolto, l’orma ne è traccia: un vuoto.
Come la traccia appare solo in assenza dell’oggetto o del corpo che l’ha iscritta, così era necessario che Gesù – impronta di Dio nell’umano – scomparisse perché la sua orma diventasse leggibile: “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.”
I discepoli lo seguono con gli occhi per non perdere nulla e poter affermare: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, […] noi lo annunciamo anche a voi.” (1 Gv 1, 1-3).
Da tre milioni e mezzo di anni – almeno – le stesse domande permangono: chi siamo? Dove andiamo? Chi cerchiamo? Chi preghiamo? Dov’è Dio? Chi è Dio? La ricerca dell’uomo rimane: permane il desiderio di avvicinarsi a Dio, di vederlo, di toccarlo.
Così l’uomo lo colloca nei templi o nelle case, o lo racchiude in specifici contenitori, per sentirsi rassicurato, per controllarlo, per mantenere la propria tranquillità.
Ma Dio è sempre da qualche altra parte: in un cespuglio, in un deserto, nel tenue soffio di una brezza leggera, al bordo di un pozzo, là dove non lo cerchiamo, là dove forse non vorremmo neanche trovarlo: nella nostra carne, nella nostra debole carne.
Che Dio si incarni – dopo duemila anni – abbiamo finito per accettarlo; ma questo riguarderebbe Lui, soprattutto Lui e nessun altro. Che la nostra carne, invece, sia divenuta la sua carne, che la nostra debolezza sia divenuta la sua debolezza e venga elevata nella gloria dell’ascensione, nella luce piena, sul trono, alla destra del Padre, è veramente troppo! Non l’abbiamo ancora accettato, perché riguarda noi. E ci spaventa troppo: colui che spesso trattiamo come un nemico – il nostro corpo – è destinato alla gloria.
L’incarnazione di Dio non era sufficiente. Ci voleva la s-figurazione, tramite la croce, e ci voleva la resurrezione; più ancora, ci voleva l’Ascensione per confermare la straordinaria dignità della nostra carne, che d’ora in poi può sedersi alla destra di Dio.
Non c’è più bisogno di guardare il cielo. L’infinito è in noi. Il vuoto è in noi.
L’impronta siamo noi.

Per la Pentecoste
31 maggio 2020

Pentecoste plenaria

I discepoli hanno paura: certo! Gesù è stato messo a morte e potrebbe capitare anche a loro.
Si sono barricati (in casa): per proteggersi; tuttavia, la paura è ancora lì e non vedono via d’uscita, la casa  si è trasformata in prigione.
Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse:“Pace a voi!”
Quale pace? È difficile – molti lo sanno – vivere nella paura, sotto la minaccia di abusi, violenze, calunnie, con l’incubo, in ogni momento, di essere investiti da parole di odio, combattuti senza motivo (Ps 108, 3).
È la carne che è ferita: percossa, fiaccata, sfibrata… trema, come quella di Gesù quando già nel Getsemani trasudava sangue (Lc 22, 44).
Quando si ha paura non c’è più spazio per vivere senza angoscia, senza stanchezza, senza rancore.
Per i discepoli, il ricordo del trauma è vivo e li segue come un’ombra. Ovunque.
Anche se il Maestro è stato crocifisso molto tempo fa. Anche se la vita è stata cercata altrove.
Anche se, sopravvissuti, vivono, nascosti, da fuggiaschi.
Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.
Il verbo “rimettere”, nella traduzione italiana, traduce due verbi diversi adoperati nel testo greco, aphìemi e krateo.
Aphìemi significa “lasciare andare” e quindi, potremmo dire, cessare di reagire, abbandonare la presa del rancore, in certo qual modo anche disfarsi dell’attrattiva negativa che il nemico suscita;  lasciare andare per smettere di trattenere l’avversario nei nostri pensieri a causa della paura che ne abbiamo, con l’illusione di poterlo dominare;  “lasciare andare” , per liberare, ma soprattutto per liberarsi: questo è “trovare la pace”.
Al contrario non rimettere i peccati, non perdonare – qui il verbo è krateo – significa esercitare una forza, dominare; si tratta della tenacia e del persistere nel tempo della paura e del risentimento nei confronti di chi ci ha offeso o ferito in qualsiasi modo. Questo è “non rimettere i peccati”; porta con sé il rischio di trattenere e tenere in vita il peggio, che consiste nel voler dominare l’avversario, illudendosi di tenerlo sotto scacco, sia pure nascondendosi, mentre ci chiudiamo con lui nella stessa gabbia. Nella stessa cella.
Ma come si fa ad avere la capacità di “mollare” la presa della paura e del rancore su qualcuno che ci appare malvagio, che ci ha offeso e non sembra per nulla disposto a riparare, ma piuttosto a ripetere l’offesa?
[Gesù] mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
L’immagine è fortissima. È Vangelo. È illuminante: lo sguardo di Gesù è distolto dal persecutore, mentre mostra le proprie ferite; per questo i discepoli gioiscono: perché vedono tutto ciò che di liberante si manifesta nella capacità di mostrare le proprie ferite, lasciando svanire il rancore.
È proprio qui che la pace sostituisce la paura, mentre subentra la libertà. Le mani e i piedi del crocifisso sono ancora ferite, ma l’Essere vive e la gioia negli “eredi” prende il posto della paura.

Come è possibile questo capovolgimento?
Nel Getsemani, prima della cattura, Gesù dice al Padre, a chi è insondabilmente più grande di Lui e lo contiene, “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42): non lotta, rimprovera Pietro che reagisce, si abbandona alla volontà del Padre, che preserva l’integrità di chi si affida alla grande vicenda della vita. Qualunque sia la prospettiva del calvario da attraversare.
Nessuno può sfuggire totalmente alle prove, al male, alla malvagità. Anzi, più si ama, più si è veri, più si patisce.
La pace che improvvisamente i discepoli provano nel vedere Gesù non è soltanto la guarigione dal trauma della perdita del maestro, è la sostanza stessa della missione per la quale sono stati inviati nel mondo.
“Ricevete lo Spirito Santo” – letteralmente: Ricevete il respiro.
È evidente il legame tra il ricevere il soffio dello Spirito e il dono di rimettere o non rimettere i peccati:
sono i discepoli, quelli che seguono Gesù, a ricevere il suo respiro e ad avere quindi la possibilità di scegliere tra il rimettere e il non rimettere i “peccati”; si tratta di tutti i discepoli, non solo dei sacerdoti e dei vescovi, come la dottrina ha indicato molto più tardi.
Lo Spirito è donato a tutti, nello stesso momento in cui viene offerto il “potere di legare o sciogliere”, di trattenere o di lasciare andare.
La prova della paura diventa il luogo per eccellenza in cui si concede all’altro di andare e a se stessi la gioia della libertà.
Il martire o l’eroe, che destabilizzano il malvagio e insieme lo lasciano libero di scegliere se rimanere nella gabbia della propria impotenza o unirsi al loro lasciare andare e accogliere lo spirito che si manifesta in vista di un bene più grande, sono testimoni estremi di questo processo vitale; un processo vitale che scorre ovunque nelle vene del mondo; la storia è disseminata di vicende di singoli, che hanno portato e trasmesso il respiro di Dio.
Più forte della paura è la gioia che viene dalla pace, più potente dell’ostilità è lo Spirito.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome, canta Maria proprio nel momento in cui è minacciata, secondo la Legge, di essere lapidata per adulterio: ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. (Lc 1, 49; 52):
Questo è il dono che ci attende, oggi, in questa festa di Pentecoste: che ne vogliamo fare?