La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato,
mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli
per timore dei Giudei,
venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”
28 maggio 2023 – Pentecoste
Vangelo: Gv 20,19-23
Seconda Lettura: 1Cor 12,3-7.12-13
La Pentecoste è una festa che ci consente di leggere la nostra storia di discepoli, personale e comunitaria, come una vicenda intessuta dallo Spirito. Lo Spirito si esplicita, si manifesta e dona la pace, i discepoli lo riconoscono nel Risorto alla vista del fianco e delle mani, ne gioiscono. Sembrano ricevere una spiegazione definitiva della loro ragione di vita: il dono dello Spirito. Porta con sé una responsabilità enorme: perdonare o non perdonare?
Sorgono diverse domande: la possibilità di perdonare o non perdonare è dono dello Spirito? E allora, che cosa perdonare o non perdonare? Chi perdonare o non perdonare?
Dovremmo rifletterci su, perché mi sembra che la posta in gioco sia molto alta: “la felicità degli altri”, mi verrebbe da dire ricordando il titolo di un film visto di recente in cui agisce una “galleria di smarriti”.
Qui io, però, parlo di una cosa che appartiene ad un livello ben diverso, quella che ordinariamente chiamiamo “salvezza” o “vita”.
Il punto di partenza è una situazione angosciosa: i discepoli hanno paura e sono barricati in casa “per timore dei Giudei”, non si aspettano grandi soluzioni da quando Gesù è stato giustiziato, o forse solo vagamente hanno qualche tipo di attesa.
Il Cristo in quel momento si rende visibile: venne e stette in mezzo a loro.
“Pace a voi!” – dice. Non augura la pace, la dona; la pace non è cosa che uno debba conquistare in proprio o tramite una terapia psicologica: o arriva come dono o semplicemente non c’è.
La pace non è assenza di angoscia, vittoria sulla paura, frutto di resilienza, distacco dalle pene e dalle gioie del mondo o frutto di eroismo mitico: è lo shalom biblico, insieme calma, armonia, completezza e pienezza nella vita vera.
Nella vita vera ci sono anche le piaghe e le ferite, che il Cristo “mostra”. È solo dopo il dono della pace che Cristo invita i suoi discepoli a riconoscerlo, mostrando il fianco e le mani, perché l’incontro si innesta sempre sulla base delle esperienze vissute e se la pace si innesta sulla passione del Maestro, è perché il Cristo della fede si identifica per sempre con il Gesù della storia.
I discepoli vedono i segni della passione e credono. E, paradossalmente, la gioia entra nella loro vita, questa “gioia perfetta” che Gesù ha voluto per loro (Gv 15,11), una gioia che “nessuno può togliere loro” (16,22) perché scaturisce da un’esperienza definitiva: è il canto fermo della nostra esistenza terrena. Su questo “tenor” Gesù affida loro una missione, che è la sua, l’unica ricevuta dal Padre: inviato nel mondo, invia i suoi – con il canto della pace nel cuore – ad affrontare la sfida del perdono.
Dovranno “rendere ragione della speranza che è in loro” (1P 3,15). Dovranno “mettere in torto il mondo” (Gv 16,8), testimoniare la giustizia e la giustezza della causa del Cristo, che è Spirito di verità e intercede per tutti. Il Vivente comunica il suo Respiro affinché ogni uomo e ogni donna diventino una comunità capace di ricevere, dare, comunicare il Soffio, il Respiro.
Il peccato, in san Giovanni, è ciò che spegne il respiro, impedisce la vita, ciò che spezza i rapporti invece di tesserli. Attraverso il respiro donato ai discepoli, Gesù desidera amare – con loro, in loro e attraverso di loro – il mondo tanto amato dal Padre. Siamo comunità in cui l’amore è dato per fluire liberamente, guarire ed elevare. Il frutto dell’amore è la vita in tutti i suoi stati e manifestazioni.
Quindi perdonare o non perdonare chi? Chi ci fa del male, evidentemente.
Ho la sensazione che le comunità, le convivenze, i gruppi, spesso e volentieri liberino solo paure, senza vivere la gioia e senza accettare la pace. Se la Chiesa e i cristiani, per quanto bravi e buoni, rimangono barricati e chiusi a chiave, si trasformano in un gruppo buono ad escludere e a puntare il dito verso il prossimo, senza guardare con verità prima di tutto a loro stessi. In questo modo si soffoca il respiro e si spegne la luce per tutti. E’ vero che è lecito non rimettere i peccati; è anche bene ricordare non solo che a noi saranno rimessi i nostri debiti nella misura in cui li rimettiamo ai nostri debitori, ma anche che ogni volta che rifiutiamo il perdono a qualcuno, ci assumiamo la responsabilità della non-remissione dei peccati per quella persona.
E’ una legge della vita: quale amante vorrebbe veder condannato il proprio amato? Quindi chi ama, perdona. Il paradigma di questa legge sono le parole di Gesù in croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.”
Inoltre, a livello personale, quando non perdono a qualcuno il male che mi ha fatto, vuol dire che non ho pace per quello che mi ha fatto e dunque condanno anche me alla non-pace e alla non-vita. cioè, come dice Paolo non sono sotto l’azione dello Spirito.
Il Vivente, per grazia di Dio, continua a entrare ancora in tutte le zone chiuse, dona la pace, mostra le sue ferite, condivide il suo respiro e invia i suoi discepoli ad adoperarsi perché anche gli altri possano respirare dello stesso soffio.