Rallegratevi ed esultate

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa

29 Gennaio 2023 IV Domenica del Tempo Ordinario
1 Corinzi 1,26-31; Matteo 5,1-12

Trovo sempre sorprendente che la croce, uno strumento di tortura e di morte, sia diventato il simbolo del cristianesimo. Sarebbe come se invece della Marianna, simbolo nazionale, la Repubblica francese, avesse adottato la ghigliottina. O come se, invece della fiaccola della libertà, gli USA avessero adottato la sedia elettrica… o come se… il cappio, il fucile, la spada, le camere a gas, o le bombe, la guerra, fossero i simboli di altrettante liberazioni.
Una follia!

All’epoca di Paolo, i gentili non riuscivano a capire come la morte di un semplice giudeo potesse essere il punto culminante della storia, mentre gli ebrei non potevano concepire che la crocifissione del Messia tanto atteso fosse il mezzo con cui Dio stabiliva il suo Regno.
Per noi, oggi, la croce è ancora follia, sia per quelli che non credono, che per quelli che credono. O ci si considera “non così cattivi” rispetto agli altri, e quindi non si ha bisogno di essere “perdonati” da Dio, oppure si pensa di potersi riscattare con Dio attraverso i punti accumulati facendo cose buone. In entrambi i casi, la semplicità del messaggio della Croce è stoltezza: “Dio, infatti ha tanto amato il mondo da dare (gratis) il suo unigenito Figlio, perché chiunque (il pagano e il religioso, il greco e il giudeo) creda (l’unica cosa da fare) in lui (nessun altro) non perisca, ma abbia vita eterna” Giovanni 3,16.

Penso che la complessità delle Scritture ci riporti alla complessità della nostra esistenza; invita a moltiplicare i sensi, le interpretazioni che, lungi dall’essere opposte, si arricchiscono.
Possiamo ascoltare l’ingiunzione di Gesù a lasciare che i morti seppelliscano i morti… e tornare alla vita. La mattina di Pasqua, Maria Maddalena volta le spalle al sepolcro e accoglie la potenza della risurrezione. Gesù guida verso la vita, cioè verso il futuro. E se la risposta di Gesù sembra scandalosa, è piuttosto la morte ad essere scandalosa.
Perché, a dire il vero, i morti non possono seppellire i morti, ma noi possiamo seppellire ciò che è morto in noi, ciò che ci impedisce di volgerci alla vita.
E se alla fine il rispetto di chi ci ha lasciato, di chi abbiamo amato, non fosse solo quello di andare alla tomba, ma di testimoniare con le parole e l’agire la fine del lutto e la ripresa o la continuazione della vita?
Si attraversano lutti e ciò che seppelliamo è l’attaccamento a quello che non esiste più;  l’amore non cancella il dolore, (semmai cancella l’odio); ma quel che un dolore così attraversato lascia a chi ama, è la vita, presente in tutti i testi biblici, nei Salmi e anche nei Vangeli.
C’è nel Discorso della Montagna una poesia che sa cantare la vita, ricordandoci la nostra umanità, riconciliando le nostre emozioni in una prospettiva che gli uomini, abbandonati a se stessi, difficilmente possono maturare: “felici quelli che piangono perché saranno consolati”.

Gesù sale su un monte, va a ridefinire o meglio ad “adempiere la legge”; già nel primo Testamento, quando Dio pronuncia le 10 parole, inizia presentandosi: “Io sono il Signore Dio tuo che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù” (Es 20,2): la liberazione precede la legge, come per indicare che i dieci comandamenti non schiavizzano, ma liberano. 

Il paradossale “beati” che per nove volte si oppone alla logica umana, è lo stesso del primo salmo: “Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma sulla via dei peccatori, e che non siede sulla panchina dei beffardi, ma che trova piacere nella legge del Signore e medita la sua legge giorno e notte!”

Non si tratta semplicemente di un’allegria beata e nemmeno di un discorso sciocco da rivolgere a un pubblico credulone. È una dinamica che implica l’andare fino in fondo, camminando rettamente; è poesia che manda in frantumi ogni rappresentazione facile, banale troppo mondana.

Dichiarare felice chi soffre è sopore della coscienza, sottomissione… oppio, come disse il buon vecchio Marx, malgrado tutto ancora inserito in un retroterra culturale che prevede vittime, sacrifici e predominio di una classe sociale sulle altre, fosse anche quella di coloro che per ricchezza hanno solo i figli.

Nel Discorso della Montagna non c’è solo promessa di una felicità dopo la morte, e non c’è traccia d’invito al predominio per qualsivoglia umano o classe sociale; c’è l’indicazione per essere in cammino al momento presente, facendosi parte attiva in un superamento di tutto ciò che è morto in noi e tendiamo fatalmente a conservare. 

Le beatitudini sono un canto alla vita, non al grigiore del vittimismo; raccontano la possibile felicità, nonostante tutti i nostri limiti, la felicità di chi si accorge che altri valori sono belli e pronti, senza necessità di abbandonarsi alla disperazione, al pessimismo, al male, alla prevaricazione degli uni sugli altri, dei morti sui vivi.

Se tutte queste affermazioni sono paradossali, se si scontrano con le immagini convenzionali di felicità è perché non esiliano la realtà della condizione umana.

Troppo spesso ci prendiamo per superuomini e per superdonne, per divinità olimpiche, costantemente tentate di voler controllare e risolvere tutto. I fallimenti su questi obiettivi irrealistici portano o a disprezzare gli altri o a disprezzare se stessi.
Le parole di Gesù sovvertono l’attesa. Se, nel nostro mondo, i primi tendono a schiacciare gli ultimi, il Nazareno indica che invece ce ne possiamo prendere cura e saremo più felici noi con loro.
Vivere con il peso della morte di altri sulle spalle non corrisponde a quel “beati” che ricorre nella Bibbia. Ne sono certo. Al contempo qualsiasi criminale d’improvviso vedesse come stanno le cose, avrebbe ancora una possibilità di appello. E prima di morire definitivamente.

Qualunque sia la situazione che potrebbe rinchiuderci, le parole del Nazareno stanno forzando le soffocanti catene della nostra sciocca ostinazione.

Le beatitudini vanno articolate con il resto del discorso di Gesù. C’è una connessione tra la beatitudine e la Legge, che il Cristo viene ad esplicitare proprio sul tema della giustizia, ma né la legge, né la giustizia sono prerequisiti per la felicità, sono piuttosto la loro promessa e la nostra premessa: il che cambia di molto la prospettiva e rovescia ogni banalità.

Gesù non introduce un’altra legge qualunque, ridefinisce la legge dell’eccesso: “Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’. Ebbene, io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano” (Mt 5, 43-44). Solo una legge dell’eccesso può risolvere il paradosso della felicità promessa e siamo di fronte ad un altro orizzonte, sul quale assistiamo al divampare di quella forza del Regno, come fosse la prima scintilla che fa scoprire il fuoco al primo uomo. E allora può succedere: “Felici coloro che piangono”, “Felici coloro che hanno fame e sete di giustizia” …
Ma allora qual è la posta in gioco di queste Beatitudini?
Cosa può farci rivivere?
Rendersi conto che è beato colui che vive in pienezza: si potrebbe quasi dire che siamo vivi “grazie” ai nostri limiti.
Se ci toccano da vicino i destinatari delle beatitudini, è piuttosto la mancanza di qualcosa ad essere al cuore di ciò che rende vivi. Quella mancanza, quell’arsura, quella sete che sole possono renderci disponibili a scorgere l’acqua. 

Che uno sia povero in spirito, mite, afflitto, assetato di giustizia o puro di cuore, tutti sono in situazione di mancanza e tutti l’abbiamo probabilmente sperimentata; quando siamo in sovrabbondanza di successo, di potere, di ricchezza, diventiamo saccenti, arroganti, fanfaroni, senza rimorsi, astuti e prevaricatori, non abbiamo più niente da desiderare, niente più da cercare, nessuno spazio per noi stessi, per gli altri, e tantomeno per Dio. Niente può farci più cambiare, metterci “in movimento”, recuperare il motivo di tanto sforzo.

La sedia elettrica, il cappio, il fucile, la spada, le bombe, le camere a gas, le torture, le guerre, sono allo stesso tempo un tragico equivoco e il fallimento dell’uomo, che si ostina a vedere negli strumenti di morte la via per la vita.

Il Discorso della Montagna è una potente, insistente sveglia, tesa a ridestarci all’inizio di un nuovo ordine della realtà, per rovesciare il nostro personale status di vittime, sacrificate, morte per la realizzazione di non si sa bene più che cosa e per chi, divenute insoddisfatte, in una storia infinita di aridità, inquietudine, ribellione, complicità con ogni sorta di errori ed orrori.

Allora l’eccesso del Nazareno, la sua croce, diventano il chiaro simbolo non della stoltezza di Dio, ma dell’uomo, che continua a mettere in croce gli altri e se stesso, mietendo vittime, quando il Signore ha già mostrato duemila anni fa di voler essere l’ultima vittima sacrificale… perché gli uomini imparassero finalmente a dirsi “beati”, “felici”, vivi.

NB: per info sull’immagine di copertina clicca qui

Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

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