Grazia a voi e pace da Dio
18 dicembre 2022 – IV Domenica di Avvento
Chi sono?
Ritorna l’eterna domanda esistenziale: la risposta determina la mia vita.
A questa domanda fondamentale forse se ne dovrebbero aggiungere altre due. Chi è Gesù? Chi sono gli altri per me?
Nel saluto di apertura della Lettera ai Romani, Paolo espone le sue risposte a queste tre domande. Come si percepisce? Come vede Gesù? Come vede i cristiani a cui scrive?
Paolo è un servitore di Gesù, a sua disposizione, senza beni propri; sa di essere chiamato da Dio. Non ha preso lui l’iniziativa di servire Dio, è stato “reclutato”, chiamato.
Gesù è per lui Uomo, figlio di Davide; Messia; Dio, figlio di Dio. Risorto. Signore.
I Romani, cui è stato annunciato il vangelo sono chiamati, come lui, come Paolo; sono persone che imparano a dire: “Signore”: destinati/chiamati ad essere santi, consacrati, appartenenti a Dio, Figli di Dio.
Ed è bello sentirsi: “l’amato di Dio”.
Vedere Gesù come Paolo lo vede è avere la vita stravolta.
Gesù è la Buona Novella e questo è il leitmotiv di tutta la lettera ai Romani; come ti vedi? Come vedi Gesù Cristo? Come vedi gli altri? Dimmi cosa ne pensi e saprai chi sei. Conoscerai la tua identità.
Il Vangelo di Matteo di questa domenica parla di un altro uomo, capace di vivere la propria identità fino in fondo: Giuseppe. Il testo ci fornisce poche informazioni su di lui. Viene presentato come un uomo giusto; nell’Antico Testamento essere giusti non significa rispettare perfettamente la Legge ebraica – cosa non alla portata di tutti – ma significa vivere sotto lo sguardo di Dio e avere quell’onestà intellettuale che non viene ingannata dalla realtà del peccato.
Quando un giovane uomo e una giovane donna si fidanzavano, erano già considerati coniugi; rompere un fidanzamento equivaleva a un ripudio, l’unica differenza tra il fidanzamento e il matrimonio era la questione dei rapporti sessuali; in sintesi, il promesso sposo doveva rimanere casto fino al momento di andare a vivere nella stessa casa, il matrimonio vero e proprio. Per una ragazza fidanzata rimanere incinta prima del matrimonio era inaccettabile. La Legge prevedeva la lapidazione in questi casi e se Giuseppe l’avesse ripudiata pubblicamente avrebbe dovuto scagliare la prima pietra.
Giuseppe rinuncia a denunciare Maria ai capi religiosi, però si prepara a mandarla via, in tutta discrezione, perché non subisca la condanna e/o il pregiudizio altrui.
Giuseppe, dunque, non segue la Legge alla lettera, se l’avesse seguita, avrebbe dovuto ripudiare pubblicamente Maria. Non lo fa.
I Vangeli non dicono molto su di lui, ma a pensarci bene non soltanto Maria ha ascoltato le parole di un angelo; anche Giuseppe ha ascoltato le parole dell’angelo apparsogli in sogno. Era l’angelo del Signore, non una questione secondaria. L’angelo aveva appellato Giuseppe “figlio di Davide”, attestandone l’origine regale: figlio, discendente, del re Davide.
L’angelo non annuncia a Giuseppe la nascita di un figlio, gli chiede semplicemente di non avere paura a tenere con sé Maria, sua moglie, perché il figlio che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. L’angelo dice ancora un’altra cosa: Giuseppe deve dare il nome “Gesù” al bambino che sta per nascere, perché salverà il suo popolo. Nel nome è riassunto tutto il ministero del Salvatore. È quindi responsabilità di Giuseppe dare il nome a Gesù; Giuseppe incarna la paternità. E proprio lui, che è stato appellato dall’angelo “figlio di Davide”, sa bene di portare un nome intimamente legato alla tradizione, quello di Giuseppe, figlio di Giacobbe, colui che conosce il significato dei sogni. E Giuseppe, lo sposo di Maria, ha la sua rivelazione proprio in sogno. Dev’essere stata un’esperienza fortissima. Tanto che obbedisce senza mezzi termini, così come anche Maria aveva fatto.
Giuseppe non è l’anzianotto pallido e triste, povero, mite e sofferente, per lo più rappresentato nei nostri presepi, che mese dopo mese, vede gonfiarsi il ventre della sua amata di una creatura che non è la sua. Giuseppe non dubita di Maria, la ama e ha la stessa maturità di sua moglie, perchè sa come stanno le cose fin dall’inizio. Il suo unico dubbio probabilmente è capire se la volontà di Dio prevede che lui abiti con sua moglie, nella stessa casa. E Dio glielo fa sapere: lo vuole.
Maria e Giuseppe vivono insieme, uniti, crescendo il frutto dello spirito. Entrambi conoscono la loro identità di figli di Dio. Come Paolo.
E se alla fine scoprissimo che ogni figlio, molto prima di essere frutto dell’amore tra due esseri è dono dell’altissimo, figlio di Dio, e che ogni genitore appartiene alla stessa sorgente di vita di ogni figlio?
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di femminicidio?
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di bambini abbandonati?
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di matrimoni e convivenze drammatiche?
Qual è la nostra identità?
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