Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. Gli scribi e i farisei mormoravano…
11 settembre 2022 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario
Luca 15, 1-32
Quando Gesù “dice” una “parabola”, ha un fine che non dev’essere quello di raccontare una storiella semplice per fare della morale spicciola; la maggior parte di questi testi, riportati dagli Evangelisti come discorsi di Gesù, include un nucleo resistente all’immediata comprensione, che ha lo scopo di scuotere l’ascoltatore per liberarlo da concetti stereotipati e da una forma anchilosata del pensiero. Ecco perché, secondo me, i religiosi del tempo si infuriavano quando insegnava in pubblico e per come si comportava: se almeno fosse stato il portatore di una dottrina “quadrata”, avremmo potuto discutere, opinare, filosofeggiare, cogitare… Invece no! Con i suoi discorsi sembra confondere le acque, additare complessità (umane e teologiche), invitare ciascuno di noi a porsi domande, oltre il catechismo, i principi, l’erudizione e i riti della Legge. Pubblicani e peccatori si avvicinano per ascoltarlo, forse perché si immedesimano prima nei racconti… e si ritrovano.
Nel Vangelo di questa domenica vengono proposti tre racconti che in genere vengono chiamati “la parabola della pecora smarrita”, “la parabola della dracma perduta” e la “parabola del figliuol prodigo”. Alcune traduzioni della Bibbia li presentano da un’altra prospettiva e li considerano insieme, chiamandoli “la parabola della gioia del Padre”. In effetti, il testo non annuncia una serie di parabole, ma una sola articolata su tre livelli, corrispondenti ai tre racconti; in un crescendo di senso il lettore è obbligato a notare la differenza tra i vari tipi di rapporto che gli esseri umani possono instaurare nel mondo, fino ad arrivare alla genitorialità, alla figliolanza, alla fraternità. Sono tre dimensione che si evolvono dall’utilitarismo, all’altruismo, alla gioia per il ritorno alla vita.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Gesù risponde a questo tipo di mormorazioni in maniera unica ed univoca con una risposta talmente larga da essere illuminante per tutti. All’inizio sia della seconda che della terza storia, una o due parole spiegano che i tre racconti sono da intendersi internamente collegati dallo stesso tema: ogni volta che qualcosa o qualcuno “si perde” – nell’ambito spirituale del regno di cui il Cristo è re – questo qualcosa o questo qualcuno viene ritrovato e l’esito finale è la gioia condivisa.
I primi due protagonisti principali, il pastore e la donna, si danno da fare molto attivamente per trovare ciò che sanno di aver perso – rispettivamente la pecora e la dracma. Nel terzo racconto, invece, non solo a prima vista sembra che sia solo il padre ad aver perso il figlio e solo più tardi afferriamo che è soprattutto il figlio ad aver perso se stesso, ma questo “essersi perduto” del figlio viene espresso come un fatto intrinsecamente legato all’esperienza umana; alla relazione tra il padre e il figlio appartiene una sorta di reciprocità sia nel dolore del perdersi che nella gioia del ritrovarsi. Tale reciprocità sicuramente non può esistere nei confronti di una pecora o di una moneta…Un uomo che abbia perso se stesso (sia padre umano – che non è Dio – sia figlio, e, per ovvia estensione sia madre, sia figlia) non è mai solo: esiste sempre un momento possibile nel quale possono essere pronunciate per lui queste parole: “era perduto ed è stato ritrovato”.
Domande?
Bisogna fare qualcosa per essere salvati? Dio salva tutti o si salvano solo i buoni? Come ci si salva?
Qual è la differenza tra perdere e perdersi, cercare e ricercare, trovare e ritrovare qualcosa o qualcuno?
Troppe. Forse neanche necessarie.
Nel primo racconto, quello del pastore e delle sue pecore, Gesù annuncia senza ambiguità che anche il più peccatore dei peccatori è cercato e trovato da Dio. Non dice che la pecora si lascia trovare, né che riconosce la sua colpa, né che supplichi il pastore di caricarsela sulle spalle per riportarla all’ovile. Non c’è un grammo di congiuntivo o di condizionale nella reintegrazione della pecora e nella ricostituzione del 100% del gregge: la pecora che si è smarrita non ha chiesto di essere tirata fuori dalla bocca del lupo.
Nella terza storia, quella del padre e dei suoi due figli, l’uomo – che rappresenta Dio – lascia i suoi figli totalmente liberi: se uno vuole partire, viene lasciato andare dove vuole, per fare ciò che crede. Non viene trattenuto con parole né con gesti. Non viene neanche ricercato per vedere se sta bene, anche quando si verifica una grande carestia. Il messaggio di questa terza storia sembra essere chiarissimo: ognuno è libero di fare o disfare la propria vita e addirittura di perdere se stesso. E non è Dio che ritrova o fa trovare il figlio. È il figlio che si fa protagonista del proprio ritorno, perché l’esperienza lo obbliga all’esercizio della memoria e del ricordo di ciò che ha realmente perduto. È lui che “parte”, è lui che sperpera, è lui che si affatica, è lui che ha fame, è lui che “entra in se stesso”, è lui che si alza, è lui che immagina cosa dire, è lui che si mette in cammino, è lui che si avvia verso casa. Senza parafrasi, il testo chiarisce che lo fa sull’onda di un bisogno acuto; solo quando comincia a scoprire di valere di più di come è ridotto, ritrova lo slancio vitale e un barlume di benevola memoria per se stesso, per ciò che ha respinto.
E questo eviti per sempre ad alcuni genitori di questo tipo di figlio, l’errore del pretendere riconoscenza: sarebbe banale e da inesperti. Quei figli, se tornano, è perché hanno già sofferto e saranno riconoscenti, perché avranno ritrovato se stessi e il loro padre.
Comunque sia, il figlio trova la forza di “alzarsi” (15,18.20): il verbo è lo stesso usato altrove per indicare la risurrezione di Cristo, esprime proprio il ritorno alla vita gioiosa. Il Padre sembra completamente passivo durante tutto questo tempo. Solo dopo si dirà che è mosso da tenerezza e accoglie il figlio come un principe. La distanza d’intensità di senso tra la prima e la terza storia è forte. Qui è in questione il ruolo di Dio e la nostra “partecipazione” alla possibilità di vivere e gioire. È anche uno shock su cosa significhi amare qualcuno e sul come aiutarlo.
E la storia della donna che si rallegra per aver trovato la sua moneta?
Non deve trovarsi lì per caso.
La protagonista è sì una donna, ma oggi potrebbe essere anche un uomo. Non dimentichiamo che Gesù parlava ai suoi contemporanei, i più erano pastori, pescatori e donne di origine israelita con i loro usi e costumi di allora, non parlava solo a eruditi, scribi, farisei e soldati romani.
Quindi, la più piccola moneta ha, per questa persona, un valore inestimabile e dunque, anche se persa nella polvere dell’angolo più recondito, la cercherà e la troverà. Così, normalmente, ci comportiamo quando vogliamo trovare qualcosa che abbiamo perso, cui teniamo molto: cerchiamo insistendo, persistendo, fino a trovare, fino a ritrovare; sappiamo di possedere quella cosa e dev’essere da qualche parte. È anche una parabola della pulizia, del rimuovere ciò che vela, della liberazione da ciò che copre e maschera l’importante, dello scioglimento dei nodi, dell’inconsistenza dello sguardo di chi non capisce ciò che noi sappiamo di aver avuto e di aver perso.
Di cose belle ne abbiamo perse un bel po’, probabilmente più di una dracma; per non perdere anche le altre nove o novantanove che siano, con la stessa sbadataggine, c’è da rimettersi a cercare, sicuri di trovare, così come siamo già stati cercati e trovati almeno una volta.
NB: immagine di copertina in: In my disc of gold; itinerary to Christ of William Congdon, New York, Reynal, 1962, Pl. 12, Nativity (Lk 2,12-14).