Il pastore e la porta

Ascolteranno la mia voce

Giovanni 10,11-18 – Domenica, 25 aprile 2021, Quarta Domenica di Pasqua.

Il primo pastore che troviamo nella Bibbia è Abele. Rappresenta tutti i nomadi, una componente dell’umanità “preferita” da Dio rispetto ai contadini sedentari simboleggiati da Caino. E sebbene Abele sia lo sconfitto nella storia, il mestiere di pastore fu esercitato da tutti i patriarchi, poi dai re Saul e Davide. E nel Nuovo Testamento, i pastori furono i primi a cantare la gloria davanti al Salvatore nato a Betlemme. La stessa figura di Dio è espressa in questi termini dal Salmo 23: “Il Signore è il mio pastore”.
È questa la figura che Giovanni riprende nel suo Vangelo, presentando Gesù come “il buon pastore”. Usa anche un’altra metafora, quella della porta delle pecore: “Io sono la porta delle pecore, se qualcuno entra per me, sarà salvato”. Questo scivolare di immagini tra la porta che si apre per le pecore e il pastore che le ama, dice qualcosa sulla persona inafferrabile di Cristo. Non è anche l’agnello? (Tanto per mettere altra carne al fuoco …)
Gesù come “buon pastore” si oppone a chi fa il mestiere solo per il salario e, cedendo ad un unico interesse, è portato ad abbandonare il gregge appena arriva il lupo.
D’altra parte, il buon pastore dà la vita per le sue pecore perché è con loro in una stretta relazione. Dà la vita, oltre che letteralmente nel senso in cui l’ha data il Nazareno, anche proprio nell’impegno quotidiano che dura tutta “una” vita.

Ma che tipo di uomo è questo Gesù, Figlio dell’Uomo, buon pastore?
Talvolta gli studi biblici, ispirandosi alla ricerca di tipo umanistico, indagano sulla costruzione dell’immagine del maschile nella Bibbia.
Ogni cultura ha il suo ideale di uomo, che cambia con il tempo che passa.
Oggi, per esempio, sono in voga diversi stereotipi del maschile, ne ho messi insieme una decina, ma ce ne sarebbero degli altri: il macho; il workaholic (lavoro lavoro lavoro…e poi ancora lavoro); il trofeo (viene esibito alle amiche – o agli amici – su WhatsApp); il freebird (spirito libero in costante ricerca senza oggetto specifico); il Lumbersexual – il boscaiolo urbano – (barbuto, stile, Che-Guevara mal compreso); lo Yummie (young-urban-male, 25/30 anni, aspetto che “buca”, vestito-calzato-griffato totale, “aura” pervasa di oggettistica high tech); lo spornosexual, ibrido che va a sport e sesso = ferreo codice estetico con muscoli evidenziati da t-shirt super stretch incollata su tricipite d’acciaio e tartaruga addominale, capello cortissimo,  jeans all’avanguardia (possibilmente con strappo simulato a riprova dell’esplosività del muscolo) sneakers, tatuatissimo, spesso unto e/o ingellatissimo, perché dedito alla cosmesi specifica per il maschile che “spacca”); il dilf, (versione maschile della bambola sexy over 40): sotto i 50, barbetta semi-incolta, tempia sale e pepe, pancetta rassicurante non invasiva, insomma il perfetto babbo, corteggiato dalle compagne di scuola della figlia. I dilf – infatti – hanno prole, spesso a differenza degli altri, e quindi hanno dalla propria parte la “maturità” che va oltre la semplice cura del deltoide e sanno mostrare apertamente le emozioni; l’hipster, giovane in controtendenza, seguace di ogni forma di cultura alternativa, esprime la propria insofferenza delle regole seguendo codici comportamentali e di costume considerati rivoluzionari nella seconda metà del secolo ventesimo. Infine il nerd: modesta prestanza fisica, aspetto insignificante, spesso grassottello, compensa la scarsa avvenenza e le frustrazioni che ne derivano con una passione ossessivo-compulsiva e una notevole inclinazione per le nuove tecnologie.

Duemila anni fa le immagini stereotipate saranno state forse meno numerose di oggi, ma molto diverse. Ciononostante ciascuno porta con sé una rappresentazione del Nazareno di oggi … legata a ieri. Il Gesù di Zeffirelli? Ma poi sarà stato bruno o biondo? Palestinese…tipo certamente non scandinavo…Il Gesù di Pasolini? Era bello Gesù? Alcuni dicono che “per forza” il figlio di Dio dev’essere bello!
Il punto è che Gesù nell’epoca in cui è vissuto, è stato visto dai più come un poco di buono, degno di finire come è finito. Nulla è stato scritto nei vangeli sulla sua presunta avvenenza o sulle sue caratteristiche fisiche.
Giovanni ce ne offre un’immagine, ne fa un modello da seguire, prendendo in prestito una metafora proveniente dal suo contesto culturale: quella del pastore, pronto a dare la propria vita per le pecore. Quindi cerchiamo di capire quale orizzonte mentale ci dischiude quest’immagine. Pensate al “Buon Pastore”; sono sicuro che scatta in automatico il ricordo del “santino”, dell’immaginetta che molti conservano a ricordo della prima comunione.
Cosa ci voleva per essere un uomo “vero” ai tempi di Gesù? Intanto il controllo di sé e delle proprie emozioni almeno nelle interazioni pubbliche: un uomo doveva mostrare la sua influenza tanto nelle parole quanto nelle azioni. Mostrare coraggio e forza in situazioni di combattimento era molto apprezzato. In breve, un uomo doveva fare qualsiasi cosa per essere riconosciuto come leader da altri uomini. Proprio come oggi…
Nei Vangeli, Gesù viene presentato come un predicatore, che attrae il popolo, come uno straordinario interprete della Torah, come un uomo capace di compiere prodigi, molto oltre il normale. Quando viene contestato pubblicamente da altri studiosi di sesso maschile, ha sempre la risposta pronta, è difficile contrapporre obiezioni immediate: bisogna pensare, inventare una dietrologia e cercare di “stanarlo” pubblicamente, mostrando la sua presunta colpevolezza, provocandolo a parlare contro Dio, contro il tempio o contro i Romani. Vale a dire contro il potere politico o il potere religioso.
Ma Gesù è così convincente quando parla come quando resta in silenzio, che riesce a trasmettere ciò che intende dire perfino a coloro che sono considerati “inabili alla comprensione” dalla mentalità corrente: i poveri, i malati, i bambini e … le donne.
Un gruppo di uomini del popolo lo riconosce addirittura come “guida spirituale”.
Tuttavia, il tipo di morte cui va incontro, cambia completamente il ritratto della suo essere uomo: Già Cicerone nel 70 a.C, illustrava con veemenza come la crocifissione fosse in se stessa una condanna indegna di un uomo: “Incatenare un cittadino romano è un crimine, picchiarlo con le verghe è un’offesa; metterlo a morte è quasi parricidio, ma legarlo a una croce! Non ci sono parole per descrivere un atto così malvagio.” (Cicerone, In Verrem, II,5,170). Per gli antichi la crocifissione rappresentava l’esecuzione che toglieva in senso assoluto ogni forma di dignità all’essere umano. 
La crocifissione di Gesù è uno scandalo talmente umiliante e allo stesso tempo minaccioso, che nemmeno i suoi seguaci, tranne tre donne e un uomo, hanno il coraggio di farsi vedere ai piedi della croce.
Sarà proprio Giovanni, presumibilmente il discepolo presente al momento della crocifissione, a darci la chiave di lettura di questa scena: Gesù viene crocifisso perché è una vittima dei Romani, torturata come gli schiavi, ma risorge perché è il “Buon Pastore”, è il Figlio di Dio, all’origine della vita. Il tentativo di cancellare l’umano che è in ogni uomo attraverso l’umiliazione estrema della tortura mortale è in definitiva l’orrore che Caino riserva ad Abele: un orrore inutile, che serve solo a mettere in luce “la banalità del male”, come avrebbe detto Hannah Arendt.

L’immagine bucolico/campestre del buon pastore non ha nulla a che vedere con le rappresentazioni sentimentali che ancora scorgo qua e là nelle pubblicazioni di stampo più o meno religioso. E forse neanche col Gesù biondo, bello e con gli occhi azzurri o con quello bruno, dagli occhi orientaleggianti.

I pastori del mondo biblico restano ai margini dalla società, lontani dalla città; sono avvezzi a vivere più in compagnia degli animali, che degli uomini e trascorrono la loro vita occupandosi del gregge (cfr Ezechiele 34,31). La figura del pastore è in netto contrasto con quella dei re e dei governanti che non sono all’altezza del compito (cfr. Ezechiele 34,1-16): costoro sono soliti prendersi cura dei loro interessi personali prima di ogni altra cosa.

Gesù non governa una città o uno stato. E’ il pastore (buono), la porta (delle sue pecore) e l’agnello; Gesù è la verità (il buon pastore), la via (la porta) e la vita (l’agnello che sempre nasce in tutti i tempi).
Gesù non viene giustiziato perché è debole o vittima, ma perché è la vita e la protegge ovunque in base alla legge dell’amore. Per questa ragione si espone alle abitudini del mondo, compito affidatogli dal Padre, per porre fine una volta per tutte alle illusioni della morte e allo spirito di vendetta.
So che questo può apparire anche inquietante, talvolta incredibile. Ma è necessario prendere del tempo di riflessione per pensarci e vedere dove alberga, anche nelle nostre situazioni quotidiane, questo istinto di vendetta, che porta diritto verso la condanna e l’odio.
Non credo che chi collaborò alla condanna di Gesù tra gli anziani della sinagoga e del tempio ignorasse questa questione. Possiamo mai pensare che uomini, attenti studiosi della Parola, rimanessero sordi proprio al racconto delle origini e a ciò che è già scritto nel Genesi?
Possiamo ben comprendere a questo punto non solo l’affermazione sulla vita: “Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), ma anche quell’altra al versetto 16: “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.” La vita è la stessa ovunque.
Il buon pastore, non è un mercenario: non fugge quando viene il lupo, perché il suo fine è curare e proteggere le pecore per farle vivere.
La reazione a questo discorso causa divisioni. Alcuni dicono che Gesù è posseduto da un demone, che è un pazzo e non dovrebbe essere ascoltato. D’altra parte, le “vere pecore”, quelli e quelle che lo conoscono e lo seguono, accettano l’interpretazione che propone Giovanni della morte e della risurrezione.

Forse questo brano di vangelo può aiutarci a riflettere sulle nostre concezioni di ciò che è un “vero uomo” nella nostra cultura. Comprendere che spesso il successo è misurato sulla quantità del suo denaro, sulla sua fama, o sul suo potere, ci fa capire che in fondo in fondo noi stessi rischiamo di pensare che sia anche giusto in senso assoluto. Vorremmo anche noi essere uomini di successo? A quali costi? Siamo forse disposti a danneggiare la vita degli altri per raggiungere il successo? Questo ci donerà l’immortalità?

È un discorso molto ampio, che implica la responsabilità sia individuale che collettiva dell’intera comunità umana: Nei confronti delle persone e del pianeta.
Quali sono oggi i valori associati al nostro agire? Dove pensiamo di andare?

Seguire il buon pastore e passare attraverso la porta delle pecore vuol dire scegliere di amare, piuttosto che essere indifferenti, vuol dire scegliere di proteggere piuttosto che abbandonare, è vivere in mezzo ai vivi per gli altri.

Non è questione di stereotipi da identificare o nei quali identificarsi, è questione dell’unica possibilità di accesso alla nostra umanità. Un solo popolo, un solo gregge, pur proveniente da sentieri diversi.

NB. In copertina, particolare dalla Wikipedia

Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

2 pensieri riguardo “Il pastore e la porta

  1. Muy buena la relacion de Abel al principio y casi al final del texto!!
    Igualmente la descrizione de los estereotipos de hoy…gracias.
    Por supuesto, la imagen de Jesus como buen pastor…y el por que le crucifican!!!! Da su Vida y amor y dignidad a todos los hombres!!!

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