Il bel pastore

Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile

Prima Lettura: At 4,8-12
Salmo: 117
Seconda Lettura: 1Gv 3,1-2
Vangelo: Gv 10,11-18

Negli anni scorsi la mia riflessione si è incentrata  sulla figura biblica del pastore, simbolo di guida e protezione.
“Il buon pastore” e “la porta delle pecore” sono metafore della disponibilità a sacrificare la propria vita per il bene del prossimo, opposte alla metafora del mercenario che espone l’altro per salvare se stesso. Nel Vangelo di questa domenica è adoperata l’immagine del buon pastore per mostrare la differenza tra il Cristo e i farisei dell’epoca.
La critica ai capi religiosi appare molto presto nella storia di Israele (cfr Ez 34). Il profeta Ezechiele aveva lanciato un vero e proprio atto d’accusa contro di loro paragonandoli a cattivi pastori, pastori che non si preoccupano delle pecore disperse sui monti, preda di bestie feroci.
Il testo di oggi si riconnette a queste parole per mostrare che Gesù è il Figlio di Dio e, a differenza dei capi religiosi di Israele, si comporta come il buon pastore profetizzato, o, per essere più fedeli alla lingua greca, come il “bel” pastore – (ὁ ποιμὴν ὁ καλός = ho poimén, ho kalós) – inteso come quello “adatto alla situazione”, “competente”, che sa come curare le esigenze del gregge affidatogli.
Gesù stesso, poco prima, si era presentato come “la porta delle pecore”, e il testo, senza transizione esplicativa, si sposta ora sull’immagine del “buon pastore”.
L’accostamento tra le due metafore identifica una qualità essenziale del Messia: essere al contempo guida e via. Abbiamo qui anche una terza immagine significativa: “l’ovile”, inteso come spazio che raduna tutti coloro che sono affidati alle cure del pastore.
In Palestina, al tempo di Gesù, i pastori solevano ricoverare le loro greggi, durante la notte, all’interno di un recinto sorvegliato da un guardiano, quindi nello stesso spazio venivano riuniti e chiusi animali appartenenti a pastori diversi. Il Vangelo sottolinea però che il guardiano, non essendo il padrone delle pecore, ma solamente un mercenario – qualcuno che compie il lavoro al solo scopo di ottenere denaro in cambio – non è affidabile. Il guardiano non è affezionato alle pecore, non se ne prende cura realmente, e quando arriva il lupo – nel momento del pericolo – scappa per mettere in salvo se stesso.
Gesù, quindi, sta prendendo di mira non tanto il lupo, quanto piuttosto i pessimi guardiani. Nel rivelarsi come “buon pastore” aggiunge che conosce ogni singola pecora e che le sue greggi non appartengono ad un solo ovile, cioè non sono costituite da un solo gruppo, ma anzi lui stesso le radunerà tutte in un unico grande gregge.
Su questa base è costruito il sogno cristiano di fare del mondo una sola famiglia.

Non tutti i messaggi religiosi possono essere posti sullo stesso piano, perché non tutti i messaggi religiosi portano necessariamente alla cura del gregge. Ne siamo oggi tristemente testimoni. Penso alle guerre in medio-oriente, ma non soltanto; penso anche ai falsi pastori della cristianità che hanno abusato del gregge loro affidato.
Come riconoscere dunque, in buona fede, il buon pastore? Attraverso ciò che vediamo? Attraverso il suo aspetto, il suo abito, il suo comportamento?
Non è una questione di aspetto, fisionomia, abbigliamento o comportamento; se si ri-conosce è perché si è già conosciuto, e precisamente si è già ascoltata in precedenza la voce del Cristo, quello che ha dato la vita per salvare il gregge, e non di un solo ovile, cioè non solo il gruppo umano appartenente ad una naziona, chiuso dentro un determinato confine geografico o politico, ma tutto il genere umano.
Ci sono ovunque, in ogni parte del mondo, uomini e donne che riconoscono la voce di chi preferisce sacrificare la propria vita per salvarne anche solo un’altra.
C’è anche una preghiera che gli uomini, cui momentaneamente è affidata la cura del popolo di Dio, conoscono bene ed è lo Shemà Israel: “Ascolta, Israele”.
Se l’uomo riconosce la voce di Dio, è perché l’ha ascoltata spesso e ha raggiunto questo obiettivo dopo un lungo periodo di allenamento.
Grazie alla capacità di ascolto, potenzialmente ogni componente del gregge, dentro e fuori qualsiasi ovile, potrebbe sentirsi al sicuro. Si tratta di una sicurezza particolare, perché non implica catene, ossessioni derivate dalla coazione alla violenza, all’esercizio del potere, all’accumulo di capitali, ma consente di raggiungere la pace nella libertà.
Una volta che si sia imboccata questa via, e si passi per la porta delle pecore, nessuno sarà più obbligato dentro un recinto, tutti potranno entrare e uscire.
Il messaggio della grazia è proprio questo: potete essere liberi e sicuri.
È necessario essere molto attenti e ben svegli, per riconoscere la voce del buon pastore e voltare le spalle a tutti i mercenari.

Solo allora ripeteremo con Sant’Agostino: “Ama e fa’ ciò che vuoi”.

NB: puoi leggere qui la riflessione del 22 aprile 2018


Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

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