Giare di pietra

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Fate quello che vi dirà

Domenica 16 gennaio 2022
Seconda del Tempo Ordinario
Giovanni 2,1-11

Qui si parla di un ottimo vino per una grande festa.
Il mondo sta cambiando, siamo senza dubbio ad una svolta, c’è desiderio di cambiamento e di fronte alle crescenti paure, si registra una mai sopita speranza.
L’attesa è talmente crescente, che, talora e purtroppo, si esprime con una violenza direttamente proporzionale alla frustrazione provata. Se le istanze e le aspirazioni sono molto diverse, e talvolta anche contraddittorie, riguardano anche due grandi questioni della convivenza: la giustizia sociale e la democrazia.

Ai tempi di Gesù, anche se il contesto politico e sociale era diverso dal nostro, l’attesa del cambiamento era tale da rendere palpabile il desiderio che un nuovo personaggio pubblico si manifestasse per risolvere ogni problema. Ogni momento spuntavano quindi personaggi messianici, le tensioni sociali erano estreme – vedi l’azione degli zeloti – e i poteri – politico, economico e religioso – vacillavano, mentre i loro uomini si preparavano a sedare ogni ribellione.

Nel vangelo di questa domenica ci sono almeno tre elementi che assumono per me un senso del tutto attuale: le giare vuote, la risposta di Gesù a Maria e il contesto delle nozze, ovvero la mancanza reale, l’esitazione davanti al compito risolutivo, l’imprevedibilità dell’esito.
Giovanni propone come primo segno – non parla di miracolo, parla di “segno” ed è forse in quest’ottica che è meglio leggere – propone come primo segno un evento, un matrimonio, una festa, durante la quale manca una componente di solito essenziale: “Non hanno vino”, dice la madre di Gesù. E non saranno le solite piccole brocche per servire il vino che Gesù chiederà di riempire; chiederà di usare le giare, grandi vasi di pietra, riservati all’acqua per la purificazione. Una vera e propria risposta rituale: dove gli occhi della religione ufficiale vedono solo manchevolezze e necessità di purificazione, gli occhi del Cristo vedono un’enorme mancanza: gli uomini sono giare vuote di spirito.
L’ingresso nella vita pubblica del Messia inizia quindi con un rovesciamento di prospettiva e una spinta propulsiva così forte da far sgorgare dalle Sue labbra un interrogativo: “Donna, cosa vuoi da me? La mia ora non è ancora giunta”.
Sembrano parole addirittura non troppo gentili, se rivolte a una madre, ma suonano come un “Non sono pronto”. Ancora una volta compare l’aspetto umano del Nazareno. Temporeggia? Esita? Maria tuttavia non si scompone, si rivolge direttamente ai servi: “Fate quello che vi dirà”.
È una madre certa che il figlio sia pronto per il compito che lo aspetta; dunque, tralascia qualunque osservazione sulla titubanza di Gesù. L’ “ora” include la consapevolezza del compito e lui sa da quando aveva dodici anni di doversi occupare delle cose del Padre suo.
Si dice che l’ora del Cristo sia quella della morte e della resurrezione, ma si tratta di un compito che si realizza a tappe.
Anche nella vita di ciascuno di noi. A differenza del Cristo noi non diamo segni particolari, né compiamo miracoli, per il semplice fatto che noi siamo segno e miracolo. Il Signore si è dovuto incarnare anche per mostrarci come essere uomini, manifestando il come della vita e delle relazioni.
Non ci sono dubbi: l’effetto del vino nuovo è simile ad un innamoramento, ad una ubriacatura, perché genera entusiasmo, ardore, distrugge la paura e il disprezzo, destinati a trasformarsi in solitudine, e dona finalmente il coraggio di amare. È l’innamorato che risorge: scorge nell’altro il volto di Dio. Tanto, chi ama è da Dio.

Se sono ad una festa di nozze e non bevo ottimo vino e non mangio pane insieme agli altri commensali, non sto festeggiando alcune nozze; se bevo e mangio in solitudine, piangendo sul peccato, sul male, sulla morte, sulla malattia e rimbrotto tutti, è difficile dire che stia festeggiando.
Infatti, quanto ci è sembrato strano negli ultimi anni dover rinunciare ai pranzi festivi pieni di parenti e amici? E, se abbiamo vissuto questa momentanea impossibilità come una liberazione, dovremmo anche porci qualche domanda sul genere di festa che avevamo creduto di vivere in passato. A quale nascita, a quali nozze, a quale vino nuovo avevamo fatto riferimento?

Dobbiamo osare, e parlare di questa prospettiva aperta davanti a ciascuno di noi.
In Europa, il rischio di un fallimento politico sta scuotendo la fiducia, senza la quale nulla è possibile; i simboli del nostro tempo sono talmente danneggiati che a volte le parole sembrano aver perso il loro significato, mentre l’“urgenza”, oggi come sempre, è rendersi conto di essere stati invitati alle nozze e che ciascuno in sé è segno e miracolo.
Mi rendo conto di cosa significa? No, perché sono incastrato nella paura della morte, del peccato e della malattia e continuo ad attingere vino vecchio in brocche ormai vuote, ormai assuefatto allo stesso imbroglio confessato dal maestro di tavola. Il vino servito per primo è sempre il migliore, mentre il peggiore arriva alla fine.
Uno dei grandi problemi della nostra società sbandata è proprio la separazione tra il religioso e il politico. Solo l’orientamento verso un’accoglienza sovrabbondante di giustizia può ammorbidire il contrasto tra l’intimismo della fede di carta e la necessaria apertura al mondo reale, al mondo lì fuori, lì dove s’inasprisce il vino vecchio e s’indurisce il pane, mentre paurosi e sprezzanti ci difendiamo dal soffio dello spirito.
Le giare sono vuote, qualcuno le riempie, solo i servi sanno da dove viene il vino buono e sanno anche che può scorrere in abbondanza per un’epifania dello spirito.

NB: Non vorrei essere accusato di far politica, se dico che Gesù, subito dopo aver rovesciato la prospettiva spirituale a Cana, va a Gerusalemme a rovesciare i banchi dei cambiavalute assiepati dentro il tempio.

Ps: che ci sia dato di essere servi della festa, della vita, della parola, del pane e del vino nuovo.


NB 2: per l’immagine di copertina consulta qui.

Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

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