«Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Marco 10,17-30 – Domenica, 10 ottobre 2021,
Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario
Gesù, dopo aver discusso con un certo brio in mezzo ai farisei su cosa sia la relazione tra uomo e donna, ha fatto un bagno di folla; alcuni genitori hanno portato davanti a Lui i propri figli perché li benedicesse; li ha benedetti, li ha abbracciati e ha colto l’occasione per completare il Suo insegnamento invitando tutti a “ricevere il Regno come dei bambini”. Era il Vangelo di domenica scorsa.
A questo punto della narrazione si presenta un “tale” che non ha avuto la possibilità o non ha osato intervenire prima, e, incapace di resistere, pone finalmente la fatidica domanda:
«Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Dev’essere credente, un uomo pio; fin dalla giovinezza ha creduto nei comandamenti, li ha rispettati e messi in pratica: è un vero israelita; parla la stessa lingua di Gesù, il decalogo. Ma ora, come dice anche Paolo, da quella Legge sembra derivare una pratica che giunge ad estremi di coerenza. Forse difficili da guardare.
Osservare i comandamenti fin dalla giovane età, a cosa porta? Dovrebbe soddisfare i requisiti essenziali della fede. Il nostro “tale” ha sempre fatto tutto bene. In che cosa si potrebbe biasimarlo?
Anche oggi, come quel “tale” zelante e pio, tutti facciamo questa esperienza: l’osservanza della Legge lascia sempre un retrogusto di incompiuto, una sorta di insoddisfazione dovuta alla sensazione del limite.
Ecco allora che Gesù propone una cosa folle: il “tale” venda quello che ha, dia i suoi averi a chi ne ha bisogno, diventi finalmente ricco di un tesoro incommensurabile, e poi … cominci a mettere un piede davanti all’altro, sapendo solo di muovere passi sulle orme del Cristo.
Ecco una decisione fondamentale per chi sente un desiderio che va oltre l’osservanza della Legge.
Cosa insegna Gesù a quel “tale”?
Una “Legge” che conduce alla vita: mi insegna a non regolare i miei affari da solo, come fossi l’unico nato da donna sulla terra; a non cercare di salvare la mia pelle facendo affidamento solo sulle mie forze. So che non salvo la mia vita da solo, perché lo farà qualcun altro, che chiamo Padre. Questo Padre offre nelle mille circostanze della mia esistenza quotidiana i suoi percorsi originali e insoliti. Non obbedisco alla Legge come fine in sé, obbedisco per scoprire concretamente il Padre.
Tuttavia, come mai Gesù insegna che è più facile per un cammello passare per la cruna d’un ago, che per un ricco accedere alla vita eterna?
Il fatto è che mi posso permettere di vivere in povertà perché il Padre mi manda ogni giorno lo Spirito che traccia il cammino.
C’è un modo di essere ricchi (e per ricchezza intendo l’abbondanza di qualsiasi avere: danaro, potere, successo, ma anche sapere, conoscenze, abilità) che assomiglia al modo di quel “tale” di osservare scrupolosamente la Legge: uno si convince e crede di essere incontestabile: “Ho quello che serve, faccio quello che serve, in che cosa mi si potrebbe biasimare?”
A questo punto del ragionamento in genere la propria ricchezza, esteriore o interiore, è già divenuta un alibi, un argomento per esistere sempre altrove da dove si è.
Spesso ho a che fare con persone che la sanno molto lunga su tutto: sono così ricchi di conoscenza che io davvero non posso dire una sola parola, senza che citino questo o quell’altro libro sullo stesso argomento, chiedendo dettagli sulle date, sulle citazioni esatte di un versetto della Bibbia, dando inizio ad un dibattito e a mille imprescindibili precisazioni, in base alle quali la ricchezza di conoscenze si trasforma da una risorsa per il miglioramento di tutti, ad un utile di tipo individuale, che blocca la comunità.
Il brano di oggi svela perfettamente l’ambiguità del desiderio umano; ci pone alla presenza di un uomo che crede di desiderare la “vita eterna”. Già dalle sue prime parole si intuisce la duplicità del suo desiderio: erede di grandi beni, desidera anche quell’altra “eredità”, la vita eterna. Il resto della storia rivela perfettamente quale dei suoi due desideri – mantenere la sua ricchezza e il suo status sociale o avere la vita eterna – sarà il più forte. All’inizio, il “tale” stesso ignora dove vada veramente il suo desiderio e quando lo scopre, (grazie all’insegnamento di Gesù), incapace di superare quell’ostacolo, continua a camminare da solo. Nel frattempo, noi impariamo che la ricchezza da sola, di qualsiasi tipo, non è in grado di dare la felicità; il che non significa ovviamente che la miseria possa essere utile; sia la ricchezza che l’indigenza non sono persone… non possono fare nulla per noi.
La relazione con gli altri, in senso cristiano, equivale a “seguire il Cristo” ed è al centro della “Legge”. L’amore, il bene comune, viene poi preferito a tutto. Ma perché si possa provare a realizzare un’etica simile occorre un elemento imprescindibile: la fiducia nell’altro.
Se questa non c’è…possiamo ritornare tristi sui nostri passi. E non saremo peggiori del “tale” pio e zelante del Vangelo, ma il nostro reale desiderio sarà davanti ai nostri occhi.
Nei versetti 23-25, Gesù oppone gli aggettivi “facile” e “difficile”, che diventano poi sottilmente, un’opposizione tra “impossibile” e “possibile”.
Forse il fallimento del ricco nasce proprio dall’illusione di “dover fare qualcosa in più per ereditare la Vita” (v. 17). Come una spada a doppio taglio, la Parola di Dio mette a nudo le intenzioni e i pensieri profondi di chi la ascolta. Alla fine dell’incontro con questa Parola, ciascuno di noi potrebbe essere messo a confronto col proprio reale desiderio e potrebbe scoprire cosa non vuole abbastanza.
Si tratta di un invito a passare dalla preoccupazione di “essere in regola”, alla familiarità con il nucleo fondante dell’identità di ciascuno, che, proiettandosi nel volto degli altri, ci trasforma tanto, quanto glielo permettiamo. Cade così la nostra psicologia superficiale con tutte le sue illusioni ed emergono le nostre ferite e le nostre intenzioni velate. La tristezza – o peggio, la moderna depressione – risultano causate dall’ambiguità di quel desiderio e dalla scelta di non amare, per non rischiare. La paura di perdere la ricchezza (materiale, psicologica, intellettuale che sia) segnala un tipo di indigenza che è l’opposto della fede: il dubbio di non essere abbastanza, di non valere, di essere trascurabili. Nessun tipo di ricchezza potrà risolvere questa incertezza.
Ci leghiamo così a ciò che ci fa apparire, con ciò rinunciando alla nostra personale ed essenziale verità di uomini e donne liberi, da una parte chiudendo le porte alla vita, dall’altra ripiegando sull’idolatria.
In questa situazione “Chi può essere salvato?”, si chiedono gli apostoli. Nessuno?
Gesù ci invita prima all’osservanza della Legge, ai “comandamenti”, e poi ad andare oltre attraverso una risposta amorosa. Il giovane ricco – un altro esemplare umano che si ripresenta invariato nel tempo dentro e fuori il recinto – deve lasciare l’attaccamento a tutto ciò che ha come nel Vangelo di domenica scorsa bisognava lasciare il padre e la madre per essere uno con la persona amata.
Spetta a quel giovane passare alla nuova Alleanza, cioè dalla Legge all’amore. Non si affida la vita ad un testo scritto, ma ad una persona nella quale abbiamo fiducia.
“Vieni e seguimi” è una chiamata matrimoniale, per la quale ogni uomo deve “lasciare suo padre e sua madre”, tutta la sua eredità, tutto ciò che costituisce il suo passato, tutto ciò su cui contava.
È lo stesso percorso degli Apostoli quando decidono di seguire Gesù.
È sempre necessario lasciare “Ur in Caldea”, per incamminarsi verso la terra promessa; durante il cammino si fa il possibile, sapendo che non c’è un impossibile “in più” che qualcuno pretende, ma anche che “tutto è possibile presso Dio”.
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