Non mancano anche in questa Quaresima le pubblicazioni che esortano i fedeli a vivere la riconciliazione con il loro prossimo.
Se guardiamo al Gesù che fabbrica una sferza di cordicelle e rovescia tavoli, forse dovremmo pensare che c’è una differenza tra riconciliarsi e accettare l’inaccettabile.
Quando è giusto – e forse necessario – indignarsi fino a … rovesciare i “piani d’appoggio” altrui?
Una volta, nel mio zelo apostolico, ho offerto i vangeli da leggere a un amico non credente; li ha letti (cosa che già lo differenzia da molti cristiani) e mi ha poi così sintetizzato la sua impressione: “Una serie di rimproveri e di miracoli”. Impressione – ammettiamolo – un po’ parziale, comunque c’è del vero. Gesù spesso redarguisce, s’indigna, rimprovera; poi opera miracoli. Non fa “solo” questo, ovviamente, ma anche questo.
Noi discepoli, che d’altronde non facciamo miracoli, quand’è che ci dovremmo indignare? Davanti a cosa? Come riconosciamo il momento giusto per integrare questo sentimento nella nostra vita cristiana? Mi sembra che non essere capaci di indignarsi quando necessario equivalga a rendersi tacitamente complici dell’ingiustizia e contribuisca a mancare l’obiettivo finale; il significato del verbo “peccare”, in ebraico e in greco biblico, ha proprio il significato di fallire la mira mancando il bersaglio.
Gesù caccia i mercanti fuori dal tempio; secondo il Vangelo di Giovanni, questa è la prima manifestazione pubblica di Gesù adulto a Gerusalemme. Possiamo pensare che fosse solo infastidito dal fetore di tutti questi animali venduti, comprati, sgozzati? Oppure “soffocato” dall’aria della “capitale”?
No, perché Gesù agisce con premeditazione, prende il tempo necessario per mettere insieme una sferza di cordicelle e persegue il suo intento: caccia persone e animali, sparpaglia a terra il denaro, ribalta i tavoli. E pronuncia parole tanto sferzanti quanto le sue cordicelle: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato.” I suoi discepoli le ricorderanno molto tempo dopo, scoprendone in pieno il senso (Giovanni 2,22): la casa del Padre – quindi l’intero creato e non solo il tempio – non è un luogo di mercato. È chiaro? Non ancora, dipende dall’oggetto di compravendita: è sulla vita che non possiamo mercanteggiare.
Un essere umano, una persona, richiede considerazione: dovremmo ricordare regolarmente di esserci, di non essere oggetti, né conseguenze di capriccio altrui; il luogo in cui ci troviamo, il nostro raggio d’azione, non è il campo di nessuno sul quale ciascuno può passare con la propria ruspa per fare ciò che ritiene più opportuno per sé.
Il regime della persona è la presenza, l’incontro e il dialogo come premessa per la riconciliazione e per la pacificazione. La vita è tutto ciò che è, è tutta la ricchezza che abbiamo, non c’è nulla che possa essere rifiutato, ma ogni situazione richiede l’instaurazione di un rapporto con qualcun altro: è l’inizio di un dialogo come premessa ad una relazione “giusta” con gli altri e implica la necessità di prendere del tempo per parlarsi, per accordarsi, per parlare di nuovo quando non ci si è capiti. Se ci troveremo davanti ad un … “orecchio da mercante” potrà succedere che ci sentiremo indignati.
Il tempio in cui risiede Dio, che sia l’albero della conoscenza, l’albero della vita, il tempio di Gerusalemme o una Persona, non è un luogo banale, dove è possibile pagare una tassa per avere in cambio una benedizione, un favore o un lasciapassare; non è un luogo dove si entra pagando con un bonus comitiva, nella speranza di trovare uno specialista in Dio, pronto a sostituirci in ciò che tocca a noi compiere.
Nel tempio si entra per incontrare Dio e non ci sono istruzioni preconfezionate per il comportamento migliore o rituali già pronti, sostitutivi di un faccia a faccia personale.
Questa dev’essere la ragione della collera di Gesù: quando Dio come Persona viene ignorato, quando la macchina per vivere insieme funziona meccanicamente, da sola, come un ingranaggio automatico, quando l’”io sono” scompare, svanendo a favore del “si fa così”, “fanno tutti così,” “abbiamo sempre pregato così,” “ci chiediamo da dove vieni, se ignori che funziona così”, allora, forse, è venuto il momento d’indignarsi.
Riuscire a farlo quando una persona viene scambiata per un oggetto è al contempo una prova d’amore e la testimonianza che tutti gli esseri umani sono persone, che i dispositivi liturgici e sociali, soprattutto quelli oliati dal denaro, non salvano e non sono sufficienti.
Gesù aiuta le persone in pericolo di vita (quella vera); se non dicesse ai mercanti, ai cambiavalute, ai fedeli, ai farisei, ai sacerdoti che i loro meschini imbrogli non portano in alcun luogo, a che titolo lo considereremmo il Cristo, il Salvatore?
Gesù con la sua indignazione apre un orizzonte, manifesta quest’altra realtà che germina ovunque nella quotidianità e che chiamiamo Regno; nel Regno le persone vive vivono secondo logiche diverse da quella del mercanteggiamento sulla vita.
La collera di Gesù permette di bucare il guscio del “che ci trovi di male, se si è sempre fatto cosi”, riabilita tutti gli “invisibili”, che non hanno cittadinanza, che vivono secondo Dio, pur non avendo il bandolo della matassa in mano e tanto meno denaro e potere.
La zelo inaugurale del Cristo è una leva che fa cadere il rivestimento plumbeo delle meschinità consolidate come abitudini; è proprio grazie a questo zelo, a questa furia inaugurale che possono apparire in piena luce una prostituta massaggiatrice di piedi, un centurione romano fuori da qualsiasi logica spiritualizzante, un bandito crocifisso, alcune vedove inosservate, alcune persone tormentate dai demoni e infine anche i morti – quelli apparentemente viventi – in attesa di risurrezione.
Quando ignoriamo Dio e il Cristo come Persona, ignoriamo molte altre persone che sfuggono alle norme e alle forme.
Indignarsi vuol dire dare voce a chi non ha voce, è ricordare che esistiamo tutti, non solo qualcuno. La collera di Gesù non è una porta aperta verso un qualche tipo di guerra santa; al contrario segna la richiesta evangelicamente ineludibile di guardare verso tutti quelli che il mondo non vede, e in particolare verso coloro che una certa concezione di religione sistematicamente rifiuta alla maniera di chi indossa un impermeabile per ripararsi dalla pioggia.
Per alcuni che non amano essere scossi, che hanno arrangiato il loro piccolo mondo in base all’esclusivo proprio benessere o hanno creduto di adoperare gli altri come ombrelli contro il temporale, la collera di Gesù è inquietante.
C’è un intero insegnamento biblico su questo sentimento. Mentre la parola collera fa paura, non spaventa invece, per esempio, la parola “amicizia”. È un gran peccato!
Ogni parola, qualunque essa sia, può essere pericolosa, se usata in contesti molto diversi: può essere ascoltata nella sua risonanza vivificante, nel significato del Regno, o può essere ascoltata nel suo senso umano, fin troppo umano. Gesù afferma di essere “amico” dei suoi discepoli (Luca 12, 4); Pilato che consegna Gesù ad Erode diventa “amico” di Erode (Luca 23,12): si tratta dello stesso termine in entrambi i casi e tuttavia sono due modi opposti di vivere l’amicizia. Per Gesù e il suo popolo l’amicizia è una relazione data da Dio, per Pilato ed Erode l’amicizia è complicità nel crimine.
La parola “collera” subisce la stessa sorte: può essere la collera di un manipolatore che cerca di spaventare l’altro e allora non ha assolutamente nulla a che fare con quella di Gesù, utile a rammentare l’esistenza di Dio e le persone dei “piccoli” sistematicamente dimenticati dal mondo. La prima distrugge la vita, la seconda la promuove.
Abbiamo un immenso tesoro di possibilità per esprimerci; questo è ciò che Gesù illustra continuamente; possiamo comportarci in molti modi, secondo l’ispirazione dello Spirito Santo che suggerisce gesti e parole utili nei momenti opportuni. A volte prevale l’indignazione e parliamo anche in modo sferzante, a volte restiamo in silenzio, a volte parliamo in segreto, a volte parliamo in pubblico, a volte restiamo, a volte ce ne andiamo.
Nulla ci viene negato e tutto è possibile quando lavoriamo per l’avvento della vita di Dio.
“Il Dio della gloria scatena il tuono.” (Salmo 28, 3).
Il Venerdì Santo si ricorda come la nostra esistenza materiale e spirituale – la nostra carne, che è la stessa di Gesù di Nazaret – possa essere offerta agli altri; donare la propria esistenza, la propria vita individuale ad un altro, significa anche che ciascuno ha la propria storia personale all’interno della quale potrà donarsi in un modo specifico che appartiene solo a lui ( o a lei); i modi di donarsi agli altri nella prospettiva evangelica sono tanti quanti gli uomini e le donne che abitano la terra.
Vite vissute in modi molto differenti l’uno dall’altro possono rappresentare lo stesso tipo di dono. Nel corso della storia molti cristiani si sono trovati nella condizione di offrire la propria vita in maniera radicale, fino al limite massimo consentito, quello rappresentato da Gesù che muore crocifisso: è il caso di tutti i martiri cristiani; piuttosto che rinnegare il Cristo e il suo vangelo hanno seguito l’esempio di Gesù di Nazaret.
Il Sabato Santo tutto tace: resta solo il silenzio. D’altronde, cosa si potrebbe dire davanti a Gesù morto sulla croce, sepolto e chiuso in una tomba?