Corpo a corpo

Matisse, Henri. 1869-1954, Dance

Marco 9,38-43.45.47-48 – Domenica, 26 settembre 2021,
Ventiseiesima Domenica del tempo Ordinario

Qui la prospettiva non è più morbida di quella di domenica scorsa.
Tagliarsi una mano, un piede, cavarsi un occhio. Sul serio? Una nuova legge basata su pratiche crudeli, arcaiche e autolesionistiche? No, per fortuna: Gesù parla la lingua della Bibbia.
Nell’Antico Testamento difficilmente troveremo un termine che indichi il corpo nel suo insieme; si nomina piuttosto quella parte del corpo che compie l’azione o il gesto principale nel contesto della frase. Si tratta di figure retoriche che, mentre arricchiscono lo stile, rendono più incisivo il senso del messaggio, perché fanno appello diretto alle capacità immaginative e rinforzano il ricordo di ciò che viene detto. Alcuni esempi:
“Come sono belli i piedi del messaggero che porta la buona notizia” (Is 52,7): non immaginiamo il movimento del corpo, ma quello di una sua parte; oppure “Fai secondo quello che la tua mano troverà”; “Fa’ ciò che sembra buono ai tuoi occhi”; “La bocca che dice la sua lode”, e così via.
È un modo di esprimersi antico e sembra voler trasmettere l’idea che tutto il corpo di chi crede, parte per parte, membro per membro, si conformerà a Dio, e che neanche un pezzetto rimarrà fuori da questo stupefacente processo.
La mia mano, il mio braccio, il mio piede, quando si muovono nell’ottica evangelica, passano a Dio; è come se non mi appartenessero più, e fossero esclusivamente strumenti dell’azione di Dio.

Le mie mani si muovono così?
Penso alla mano di Mosè, stesa davanti al Mar Rosso (Es 14, 16 e 21), per farmi un’idea della cosa.
Mosè, all’inizio, quando incontrò Dio presso il roveto ardente, fu educato con un metodo singolare: il Signore gli chiese di mettere la mano sotto la veste, contro il petto, e poi di ritirarla. Lui lo fece e se la ritrovò coperta di lebbra; richiesto una seconda volta di compiere lo stesso gesto, la ritirò di nuovo sana (Es 4,6-7); in questo modo imparò molto praticamente che la sua mano – parte del suo corpo e strumento d’azione – apparteneva a Dio, ne disponeva solo presso di lui, così come disponeva solo presso di Lui della propria bocca e della propria lingua – parimenti parti del corpo e strumenti del linguaggio. Mosè obiettò che non era così bravo a parlare e quindi assolutamente inadatto al compito che il Signore voleva assegnargli, ma il Signore lo invitò nella nuvola, o nella tenda del convegno, per parlargli e Mosè ne uscì in grado di ripetere le parole di Dio.
Il Deuteronomio inizia così: “Queste sono le parole di Mosè”; in altri termini l’uomo che aveva la bocca difettosa, balbuziente, pronuncia le parole di apertura di un libro che è Parola di Dio. Alla fine del Deuteronomio, è detto, letteralmente, che Mosè, morì “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), per dire che morì in Dio: sulla soglia della terra promessa la parola e il soffio di vita di Mosè si fusero con la Parola e il Soffio di Dio.

Ancora mi tornano in mente le mani alzate di Mosè (Es 17,8-14), la divina sciatica di Giacobbe, (Gn 32,26-33), i piedi e le gambe di Davide, (2 Sam 22,34 e 37); il grembo di Rachele e Anna (Gn 30, 22-23 e 1 Sam 1); la circoncisione dei maschi a partire da Abramo (Gn 17) – che indica l’appartenenza a Dio dell’organo generativo: questione raramente intesa nel suo significato originario e purtroppo spesso affrontata in maniera superficiale.

In tutti questi casi, i protagonisti delle narrazioni vivono l’esperienza concreta di avere un braccio-con-Dio, una gamba-con-Dio, un grembo-con-Dio, un membro-con-Dio.
È come se il Signore dicesse a ciascuno: “Guarda bene, tu immagini di possedere un corpo tuo e di controllarlo, ma non è vero: non esiste alcun corpo tuo, se non è in-me”.
Lo so, fa impressione, ma questa è la storia, questa è l’avventura della carne proposta nella Bibbia fin dalla prima pagina, dalla creazione di Adamo ed Eva. Basti pensare ad un fatto semplice: ci accorgiamo che non abbiamo il controllo, per esempio, su alcune malattie e dunque in genere chiamiamo Dio in causa per lamentarcene; ma se compiamo un’impresa di natura fisica eccellente, non chiamiamo così velocemente Dio in causa per rallegrarcene. Come mai?

Se un corpo non compie un consapevole passaggio a Dio durante la vita sulla terra (e non è che lo compiano solo i veri cristiani, attenzione, ci sono altri oltre la siepe!), se un corpo non compie questo passaggio, dicevo, non è niente: passa e basta.

Forse questa riflessione può aiutare a comprendere le parole categoriche e durissime di Gesù, che assumono ai miei occhi un senso più ampio: se vedi che questa o quella parte di te resiste dall’essere-con-Dio, rimuovila, buttala nel cestino, con l’altra spazzatura, così finirà nell’inceneritore insieme agli altri rifiuti, ovvero – molto concretamente – nella Geenna, il nome della discarica di Gerusalemme dove all’epoca bruciavano continuamente i rifiuti.

La mutazione, l’evoluzione della specie di cui parla la Scrittura è il compimento carnale in Dio, annunciato dal Cristo. Se il mio gesto è eseguito in Dio, la mia carne è trasformata.

In questo senso, la donna che massaggia con l’unguento i piedi di Gesù rappresenta il passaggio del corpo al Cristo, compiuto in Dio; il suo è un gesto trasformato: unge i piedi del Messia, lo riconosce, lo cura, lo ringrazia, collabora al suo cammino, perché ha riconosciuto l’unto di Dio; ha esaltato il corpo del Cristo. Ancora una volta qui i piedi sono una parte per il tutto, i piedi diventano l’emblema del significato dell’avvento del Messia. In ultima analisi, la Maddalena concretizza un atto che rende visibile, manifesto il versetto di Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero che porta la buona notizia”.
Il corpo che appartiene a Dio diventa un canale di trasmissione della vita.


Penso ancora a Elia e ad Eliseo: ciascuno dei due si sdraia su un giovane morto. “Occhi sui suoi occhi, bocca sulla bocca, mani sulle sue mani” è detto di Eliseo che giace sul figlio della Sunamita (2 Re 4,34); di Elia è specificato: “Si è messo alle misure del ragazzo” (1 Re 17,21). In altre parole Elia ed Eliseo si configurano ai quei corpi senza vita e attraverso il loro corpo, vivente in-Dio, i morti tornano in vita.

Gesù adopera parole veementi e durissime, ma siamo in grado di comprenderle ancora meglio se torniamo indietro di qualche versetto, là dove è narrato del fallimento dei suoi discepoli nel curare un bambino posseduto da uno spirito che lo gettava a terra. Il padre di quel bambino si era rivolto così a Gesù: “I tuoi discepoli non hanno avuto la forza”.
La collera deve aver afferrato l’uomo Gesù, che reagisce con tutta l’energia delle sue parole: via, strappare mani, piedi e occhi e gettarli nella spazzatura se non sanno compiere il bene in favore della vita donata fin da principio: non servono a nulla, non sanno fare nulla!
Suonano nella stessa direzione, sebbene assai più morbide, le parole di Francesco di qualche giorno fa: la Chiesa ferma, se non è in cammino, ammala il popolo di Dio.
Quanta verità c’è in queste parole ognuno lo vede: una Chiesa ferma è come la mano ricoperta di lebbra di Mosè.
Nessuno del resto può operare guarigioni in nome del Cristo se non è dei suoi: se c’è qualcuno che opera guarigioni in nome del Cristo, vuol dire che è conformato a Dio. Anche se i discepoli non sono d’accordo … È urgente, dunque, che la carne dei discepoli – tutta – passi a Dio, lasciandosi trasformare e risanare.

Il corpo del Cristo è il prototipo del corpo completamente immerso in Dio, vettore di vita e risurrezione.
L’avvertimento per noi oggi potrebbe essere: non c’è bisogno che ti strappi la mano che ha ferito la vita, come se tu avessi il potere di fare tutto da solo; occorre che tu ti accorga della tua vera condizione e attenda con fede il risanamento della tua mano coperta di lebbra.

NB: In copertina, Matisse, La Danse, riproduzione a scopo educativo.

Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

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