Mangiare tutto

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Marco 14,16-20; 14.22-26 – Domenica, 6 giugno 2021, Corpus Domini

Un giorno, diversi anni fa, al termine del pranzo nella canonica di una chiesa camerunese dove ero ospite, andai a riporre come al solito il piatto sul carrello; improvvisamente mi sentii redarguire aspramente da una donna, una suora, perché avevo lasciato briciole e tracce di cibo nel piatto: avrei dovuto mangiare tutto!
Non è stato semplice all’inizio della mia missione adattarmi ai cibi, ai sapori, agli odori nuovi e dunque doveva capitare spesso che lasciassi qualcosa. Mi fu anche spiegato che la suora che mi aveva rimproverato aveva conosciuto la guerra e la carestia e non accettava che qualcosa fosse lasciato nel piatto di chi aveva cibo a sufficienza.
Il tema non è nuovo, è molto delicato e immagino che ciascuno potrebbe fare osservazioni in merito, confrontando le proprie reazioni e le abitudini familiari con quelle di altri.
Al di là di qualsiasi riflessione di tipo psicologico, da quel momento, quell’avvenimento per me ha avuto un significato tutto particolare. Si lascia nel piatto qualcosa perché non si ha più fame, o perché non piace o forse anche senza pensarci, per un’abitudine; e certamente non esiste una norma universale o una legge cui adeguarsi su questo argomento. Tuttavia, per me, da allora, ha preso anche il significato di prendere tutto ciò che la vita mi riserva, il bello e il brutto, il più e il meno.

Quando si rievoca l’ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli: “Gesù prese il pane … e disse:” Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese il calice … e disse loro:” Questo è il mio sangue … “”, troviamo nei cristiani di oggi tutta una serie di sentimenti e percezioni.
Per alcuni è soprattutto il momento della transustanziazione, che richiama tutta la nostra venerazione; per altri è la celebrazione dell’istituzione dell’Eucaristia; per altri ancora, è la ripetizione di parole familiari, quasi un’abitudine di ascolto irrinunciabile, che rassicura e precede il rito della comunione, il rito che fa di una mensa una messa.
Per me è anche l’ultimo pasto di Gesù prima dell’arresto e della condanna: un momento tragico, nel senso letterale del termine, è la sintesi del significato essenziale incarnato nell’uomo Gesù. Qui è riassunta l’intera motivazione della nascita, dell’insegnamento e della morte del Nazareno. È il lascito per gli amici e i testimoni da parte di chi ha dato tutta la propria vita, tutto se stesso, materialmente e moralmente, carne e sangue, per indicare l’unica via d’uscita dal buio nel quale ciclicamente gli esseri umani tendono a ricadere.
“Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere l’opera sua.” (Gv 4,34). Queste parole sono pronunciate da Gesù stesso, ma ogni cristiano potrebbe pronunciarle per se stesso, perché tutti siamo potenzialmente inviati con lo stesso scopo.
Ecco perché “mangiare tutto ciò che c’è nel piatto” può diventare metafora dell’accettare tutto ciò che la vita mi dà e anche tutto ciò che la vita mi toglie, tutto ciò che mi piace, e tutto ciò che non mi piace, il più e il meno, il bello e il brutto. Non mi è dato fare diversamente.
Ogni volta che celebro l’Eucaristia qualcosa riecheggia in me, come se dicessi a me stesso: “Lo so, è così, lo ricordo: è l’essenziale”; mi sento nella stessa stanza, allo stesso tempo, attorno alla stessa mensa condivisa dai discepoli. È anche a me, tra gli altri, che il Cristo si è rivolto e si rivolge, in un presente reale. Allo stesso modo che con Pietro, Giovanni, Andrea, o con i discepoli di Emmaus, il Cristo presiede sempre il pasto: è una presenza reale.
Ho conosciuto un sacerdote che rifiutava di sedere sulla sedia del presidente dell’Eucaristia quando celebrava, perché quella era riservata al Cristo, il vero presidente.

Infine, c’è una dimensione che forse cattura davvero la nostra attenzione solo quando si tratta di mangiare il pane della comunione.
Perché il pane e il vino? Perché evocare il corpo e il sangue di Gesù, e prima ancora perché Gesù ha scelto proprio il pane e il vino per istituire il memoriale a fondamento della Sua chiesa?
Il pane è al cuore della nostra alimentazione, il vino è al centro della nostra festa. Senz’altro, ma né il pane, né il vino sono cibo o bevanda che si prenda direttamente da un albero o la si trovi in giro per i campi. Sia il pane, che il vino, nella loro semplicità, richiedono la vita e l’opera dell’uomo.
Siamo noi il pane e il vino, anche noi siamo “il frutto della terra e del lavoro dell’uomo”; il frutto di quel lavoro che ciascun uomo deve compiere su se stesso, se vuole emanciparsi dalle tenebre.
Afferrare questo, mangiare questo pane, bere da questo calice vuol dire riconoscere che Gesù, il vivente, si può trovare solo al centro della nostra vita e delle nostre feste, e può agire solo attraverso ciò che costituisce il nostro essere, la nostra personalità, il nostro soffio nel presente.

Quando mangio il pane, quando dico Amen, dico di sì a ciò che costituisce la mia vita, accetto di mangiare tutto quello che c’è nel mio piatto, le cose belle come quelle che lo sono di meno, proprio come Gesù ha detto di sì alla Sua vita.
A volte ci sono cose amare nel mio piatto. Le mangerò? Tutte? È un vero e proprio crocevia.
In questo momento penso ai genitori e ai figli che sostengono le disabilità o degli uni o degli altri. Proteggere e custodire la vita, anche quando nasce malformata o si sta spegnendo deformata, è uno dei molti modi di celebrare l’Eucaristia, consumare tutto ciò che c’è nel piatto e bere tutto ciò che c’è nel calice.

Pubblicato da Oliviero Verzeletti

Missionario Saveriano. Nato a Torbole Casaglia (BS). Cittadino del mondo, attualmente residente in Italia, a Roma dopo diversi anni trascorsi in Camerun.

Una opinione su "Mangiare tutto"

  1. Precioso. Comer todo lo que hay en el plato es aceptar y acoger todo lo que la vida me da o todo lo que no me da, o me quita. Todo lo que me gusta o no me gusta. Preciosa metafora.

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