Discesa ardita?

In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone

8 gennaio 2023 – Battesimo del Signore
Mt 3,13-17; At 10,34-38

Alcuni testi rabbinici, ricollegandosi all’azione dello Spirito durante la creazione, paragonano il Suo movimento a quello di una colomba che vola sui suoi piccoli da vicino, ma senza toccarli. Lo Spirito di Dio che aleggia sulle acque primordiali, scenario grandioso che apre il racconto biblico, è qui evocato attraverso l’immagine di una colomba che si libra nell’aria, scendendo da uno squarcio nel cielo. Sono versetti che suggeriscono con forza poetica tutta l’alterità dello Spirito rispetto all’uomo e allo stesso tempo tutta la vicinanza amorosa al Nazareno.
Il testo è breve, appare semplice, pacificante, in netto contrasto con quanto lo precede, con la predicazione brusca, perfino violenta del Battista che annuncia il giudizio divino e il battesimo del fuoco; dopo ci sarà la lotta di Gesù contro il nemico nella durezza del deserto.
Qui, con un breve scambio tra Gesù e Giovanni, siamo improvvisamente introdotti nello spazio di un incontro, di un riconoscersi, di un parlare una lingua comune.

La parola “battesimo” significa “tuffo”, “immersione”. Gesù di Nazaret, il figlio prediletto in cui lo Spirito si compiace, si trova anonimo tra una folla in cerca di parole di salvezza, persone animate dal desiderio di cambiare il corso delle loro vite; credono che il Battista ne indichi giustamente la via attraverso il pentimento e la conversione.
Spesso abbiamo creduto che la conversione fosse una riparazione sul cammino individuale; se fosse invece soprattutto una svolta per convergere tutti verso un fine comune, un camminare finalmente insieme? Se tutti noi sentissimo la necessità quasi “ancestrale” di raggiungere il Giordano, frontiera da attraversare della terra promessa?
Immergersi nell’acqua del Giordano sarebbe allora il segno di questa volontà di convergere insieme verso una vita rinnovata. Entrare ed uscire dall’acqua esprimerebbe l’intenzione di partecipare a un cambiamento epocale che potrebbe veramente attenderci a livello universale, perché è chiaro che non ci si salva da soli, ma soprattutto non ci si salva facendo in maniera esclusiva il proprio interesse o quello della propria classe sociale. Ancora prima di essere una convinzione di fede, questa idea è un compito da realizzarsi e spetta a tutti, conviene a tutti, non solo alla cristianità.
È necessario rendersene conto e arrendersi a questa possibile soluzione convergente. Perché?
Perché la società contemporanea non è stata ancora capace di costruire “dispositivi” atti a fermare l’inciviltà. Prova ne sia che non si riesce ancora a fermare la guerra e il vero motivo è che la società, dopo aver operato una critica globale di tutti i valori, non è stata in grado di fondarne di migliori.
E ci sono altre domande: perché il Nazareno è andato ad immergersi nel Giordano come tutti gli altri? Questa sarebbe la giustizia che doveva esser fatta e che si sarebbe compiuta alla fine dei tempi, periodo nel quale saremmo ancora immersi?

La presenza di Gesù sulle rive del Giordano con la folla significa che egli abbraccia la condizione umana, non si sottrae alla sua missione di condividere il destino dell’uomo per poterlo definitivamente volgere al bene. Gesù si “tuffa” nella nostra condizione comune, mediocre, contorta, contraddittoria, quella di tutta l’umanità e ne esce Redentore per tutti noi. In quel momento una voce lo designa non come figlio di Giuseppe e Maria, ma come figlio amato di Dio e lo Spirito aleggia su di lui in segno di una nuova creazione, di una svolta possibile, anzi certa, per l’umanità intera.

È solo questione di tempo …
Gesù avrebbe potuto dire ai testimoni di questa scena: “Voi non sapete chi sono io!”.
Invece niente del genere: non sceglie di farsi adulare, di dominare, sottomettere, forzare o costringere. È venuto a servire la causa umana, cioè a fare la volontà del Padre, lo ripete incessantemente; fare la volontà del Padre vuol dire soprattutto servire l’umanità.
L’apostolo Pietro, parlando al centurione Cornelio, il primo pagano a entrare nella Chiesa, dirà: “Dal giorno del suo battesimo, Gesù è passato in mezzo a noi, facendo del bene”. Guarisce, allevia, riconcilia e ascolta i piccoli, gli umili, i malati, tutti coloro che per fragilità loro e altrui sono stati emarginati. Soprattutto, come ancora Pietro dice in Atti 10,43, i requisiti per la salvezza sono condivisi tra “chiunque crede in lui”, e Pietro stesso condivide la buona novella tra tutti coloro che incontra, pagani compresi, affinché anche loro possano credere e salvarsi insieme agli altri.

Non finiremo mai di meditare sull’incarnazione del Figlio di Dio, che è sorta tra le pieghe delle nostre vite ordinarie e allo stesso tempo uniche.
Non possiamo disertare la storia, così caotica, spesso dolorosa, a volte rivoltante, ma anche magnifica e piena di promesse che aprono il futuro, rilasciando speranza.
Non spegniamo il fuoco dello Spirito, non disertiamo la novità di ogni mattino, lamentando la banalità e l’oscurità delle giornate o dei tempi.
Diciamo no alle assurdità, alle sofferenze inflitte da uomini ad altri uomini, all’ingiustizia palese, alla presunta fatalità del male e della schiavitù. Cominciamo col guardare subito e vicino a chi soffre più di noi e facciamo il nostro possibile perché stia meglio, lasciamo la preoccupazione per noi stessi a qualcun altro, perfino se non sappiamo ancora chi è.

“In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone”
Sarà stata ardita la Sua discesa o sarebbe troppo ardita la nostra risalita?

NB: puoi scaricare qui il commento al vangelo del 12 gennaio 2020

La pienezza del tempo

Dove sono dunque le vostre manifestazioni di gioia?

1° gennaio 2023 – Maria Santissima Madre di Dio
Lc 2,16-21; Gal 4,4-7

La “pienezza del tempo”, secondo l’espressione di Galati 4,4, si realizza con l’invio del Figlio. I pastori vivono la pienezza del tempo tornando, lodando, glorificando il Signore.

Le letture di oggi ripropongono a chiare lettere la gioia del Natale. Mi chiedo allora: il mantice delle nostre attese che ha dato aria alla fede è ancora in movimento? Se il suo movimento era stato generato dall’aspettativa di luci, banchetti, feste e doni, il mantice potrebbe fermarsi, per stanchezza, per esaurimento d’aria, per asfissia o per assuefazione. Se manca il soffio, manca lo spirito. Era di questo tipo la gioia?
Spesso i bambini, una volta ricevuti i loro doni, dopo un picco di eccitazione, ricadono in una sorta di indifferenza a quella novità, che pure li aveva resi felici poco prima.
Capita anche agli adulti, non solo perché dopo un buon pasto di Capodanno o di Natale si ripiomba nella routine quotidiana, ma forse anche perché la forza dell’attesa si affievolisce o si spegne del tutto. Non abbiamo altra attesa?
Io credo che molti leggano il vangelo come una favola per bambini: questo è il problema.
Provate ad immedesimarvi in quei pastori che vanno a vedere il bambino, credendo fermamente in ciò che ha detto loro l’angelo del Signore; come pensate che Luca potesse raccontare la forza dello spirito che muove a quegli uomini di 2020 anni fa? Con un trattato di filosofia?
Solo la certezza della fede permette ai pastori di “tornarsene”, lodando e glorificando il Signore.
C’è un livello della nostra umanità in cui tutti siamo come quei pastori, ma non tutti accogliamo la forza dello spirito – l’annuncio dell’angelo – come una notizia certa e concreta; per chi si accontenta della favola, la pienezza del tempo non è ancora giunta, non si sente, non si vede.

Ma… chi può dire che non è triste sentire la gioia del Natale declinare e morire?
Chi può dire che non è terribile sentire il fervore svanire? Chi può dire di rallegrarsi quando ricomincia la routine con il suo ritmo soffocante? Oppure quando si chiude la parentesi di speranza aperta dal Natale sulle sventure della nostra vita, come ad esempio la malattia?
Chi di noi può dire che la gioia cristiana è duratura più di un fuoco di paglia?
E chi la vive, come può farsi guidare dalla gioia in questo nuovo anno?

A qualche livello, dicevo, siamo tutti simili ai pastori, solo che quelli di cui parla Luca non hanno mai pensato che la nascita del Bambino fosse una favola alla quale, da adulti, sarebbe stato conveniente accondiscendere e che avrebbero dovuto raccontare ai loro figli.
Per quei pastori fu un’esperienza vitale, accolta e narrata con gioia e stupore così grandi da produrre turbamento. Non hanno edulcorato, spiritualizzato e mitizzato; sono tornati trasformati alla loro vita di tutti i giorni trasformati da quell’esperienza, potremmo dire contenti di continuare a fare i pastori. Per loro è una questione di fede. Non vanno a Betlemme per verificare se ciò che l’angelo ha detto è vero, vanno con il solo desiderio di vedere il bambino, una profezia avverata; vanno a Betlemme a vedere cosa succede. È successo: il Signore ha fatto loro conoscere la verità, non dubitano, non sospettano, semplicemente il Signore ha promesso e mantenuto.
Se i pastori sono arrivati alla mangiatoia dove si trovava Gesù con i suoi genitori, non è stato attraverso una manipolazione pubblicitaria, ma sulla base di una promessa che credevano si fosse adempiuta. Da qui in poi non sentiremo più parlare dei pastori.

Come si fa a vivere la fiducia dei pastori di Luca?
Proviamo ad osservare il comportamento di Maria: “Maria custodiva il ricordo di tutto questo e lo meditava nel suo cuore”. È così che Luca parla della madre di Gesù.
Maria ha conservato la memoria di tutti questi eventi, il mantice della sua speranza non si è mai fermato, la gioia di essere la madre del Signore per lei non ha mai avuto termine, nonostante il dolore patito. A differenza dei pastori, non dice nulla, eppure non si limita a tacere: medita e custodisce il segreto dello Spirito che è venuto a lei: del dono ricevuto fa cibo del suo vivere. Non cerca di tenere tutto a mente per capire meglio, considera tutto ciò che vive come segno e conferma dell’amore dell’Altissimo, per lei e per tutta l’umanità. Custodisce il tesoro, non parla in fretta, gli eventi vissuti diventano per lei motivo di preghiera e diventa capace di seguire suo figlio per tutta la vita fino alla fine. A questa fede siamo tutti chiamati, ad essere fiduciosi come i pastori e fedeli come Maria; la fede persevera e preserva la gioia della pienezza, la gioia della nascita.
Paolo, nella seconda lettura, mette in luce un paradosso, quello del figlio e dello schiavo.
Il bambino appena nato ha tutto, ma non può fare nulla con questo tutto; è la stessa condizione dei “figli di Dio” ed “eredi delle cose celesti”, cioè di ciascuno di noi. Chi ha la fiducia dei pastori, chi custodisce il ricordo della profezia e del dono della vita come Maria, ha lo stesso potere del bambino. Ha tutto, ma ha bisogno di tutti.
Paolo paragona la posizione e i diritti di un bambino appena nato a quelli di un servo, un’immagine scelta per far comprendere che il bambino piccolo vive sotto la Legge e la tutela, mentre l’adulto e il figlio vivono – o dovrebbero vivere – nella libertà e nella responsabilità, cioè da adulti in Cristo.

Chi si rifiuta di crescere, non vede un segno in quel bambino nella mangiatoia, allora dovrà accontentarsi di regole esterne, come un marinaio che, non avendo una bussola interna, è costretto ad orientarsi con un navigatore, schiavo di un dispositivo esterno. Come quello che montano le automobili o i nostri cellulari.
Il dramma del nostro tempo storico consiste nel non saper più leggere con perspicacia, amore e autonomia le mappe della vita, distinguere il sud dal nord, l’est dall’ovest e le pecore dai buoi; la Bibbia non traccia più la rotta, la parola non spiega, il nome non designa. Se da una parte è vero che dalla Legge non è caduto neanche uno yod, dall’altra la crescita di quel bambino, segno per la nostra fede, porta a scoprire un nuovo sentiero su cui senso di vuoto e perdita si dileguano, per fare largo ad altre esperienze di gioia e bellezza.
Potrei dire che impariamo a conoscere l’attesa di Dio, che scopriamo di avere la legge dell’amore scolpita nel cuore, e anche che è solo la struttura di peccato a seppellire quella verità; potrei invocare la necessità di pentirsi, di spianare la via, ma non è questo che m’interessa dire ora. Piuttosto lascio che il soffio dello spirito tolga la polvere che ricopre quella scritta, tengo pulito il cuore e mi rammento che lì fuori, in questo momento, c’è qualcuno che aspetta proprio me, per incontrarmi. Poi scoprirò il perché, non lo so mai prima. Potrei scrivere un lungo elenco di uomini e donne, parenti, amici e perfetti sconosciuti, vivi e defunti, attraverso i quali il Signore ha voluto incontrarmi. Si tratta della pienezza del tempo? Come i pastori di Luca, posso solo riferire stupito, lodare e glorificare? Certo ho imparato da Maria, la madre del Nazareno – l’unica che ha capito prima e per tutti che è necessario solo ricordare – a meditare e a custodire la Parola, perché l’intima legge d’amore, che alberga in noi, sia sempre illuminata e vivificata dal soffio dello spirito e dall’incontro con il figlio dell’uomo.
Auguro a tutti, per questo nuovo anno, di conservare e custodire ogni benedizione avuta da Dio, a partire dai vostri figli e donandoci Suo Figlio per accompagnarci durante tutto il viaggio della nostra vita. La novità è per tutti, richiede pazienza, semplicità e capacità di stupirsi, non ultimo una certa innocenza di fondo…

E che gioia sia per tutti!

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Urgenza

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo,

25 dicembre 2022 – Natale del Signore
Mt 1,1-25; At 13,16-17;22-25

Tra questa sera e domani alcuni si ritroveranno riuniti intorno alla mensa per ricordare e celebrare l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Altri non si ritroveranno affatto, eppure è qualcosa di cui tutti hanno sentito parlare.
Come mai? Perché Paolo e Barnaba – e altri – sono andati in missione, per informarne i pagani, ovvero il resto dell’umanità oltre Israele.
Ci sono ancora pagani?
Forse sì, ma in ogni caso Paolo e Barnaba cominciarono il loro giro informativo da quelli che già conoscevano la Parola di Dio, nella sinagoga.
La stessa presenza e l’atteggiamento di Paolo rivelano chiaramente l’urgenza assoluta di comunicare che Gesù Cristo, Figlio di Dio e Risorto, è il Salvatore annunciato dai profeti ed estenderà la sua grazia e la sua salvezza oltre i confini di Israele. Si può immaginare la determinazione di quest’uomo nell’annunciare una notizia così enorme, così bella, che va oltre ogni attesa e a lui rivelata direttamente dal Signore insieme con il comando di portarla per il mondo allora conosciuto. Proprio a Paolo! Il tenace persecutore dei primissimi cristiani.
Per Paolo e Barnaba tutti erano pagani, tranne una minoranza, il popolo di Israele, all’interno del quale un’ulteriore minoranza aveva riconosciuto in Gesù il Messia atteso da Israele.
Mi chiedo: saranno ora maturi i tempi, per chi ha ascoltato Paolo nei secoli, di riconoscersi portatore della Parola e della Parola che si fa carne, si offre, risorge e salva? I cristiani sanno di essere tutti inviati, come Paolo lo sapeva? Sentiamo la stessa urgenza?
Chi oggi annuncia la Buona Novella? E, soprattutto, a chi? Ai pagani? E chi sono ora questi pagani?
Guardiamoci negli occhi gli uni con gli altri: chi vediamo riflesso nelle pupille del nostro vicino? Chi crediamo sia il vostro vicino? E poi, la cosa ci interessa veramente?
Eppure siamo fatti tutti della stessa materia, siamo tutti fatti di carne: genealogia di Gesù, Cristo, figlio di David, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, […] Mattane generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, da cui era stato generato Gesù, che si chiama Cristo.
La carne è la parte più intima, segreta e nascosta che da sotto la pelle traspare appena, ma che tuttavia risponde ad ogni sollecitazione dell’ambiente; la carne soffre, geme, gioisce, desidera, trema e non vuole essere separata; la carne ha fame di conoscenza di esseri e cose, è avida di presenza. La carne si ricorda, costituisce un serbatoio di sensazioni multiple, passate e presenti, di eventi raccolti e conservati, fino ai più antichi, racchiusi in una fitta rete di nervi e muscoli, trasportati nel sangue, ricordi che sorgono e reagiscono di nuovo ad ogni nuova sensazione.
La carne, al momento del concepimento, non è fabbricata dal nulla in un modello unico e separato, staccato da un lignaggio e da una famiglia; ad ogni generazione è come fosse ereditata. Ciascuno eredita questo o quel tipo di carattere dalla sua famiglia e dai suoi ascendenti; perfino i suoi gesti, un certo modo di stare in piedi, di camminare o di ridere ricordano quelli del padre o della nonna.
E poi ci sono anche le storie raccontate in famiglia, dalla zia o dal bisnonno, che forgiano l’idea di ciascuno sul proprio posto nel mondo.
Niente è meno solitario e anche meno condizionato di questa carne vivente di uomo o donna che avanzano nell’ignoto dell’esistenza tra umori e desideri, speranze e paure, determinazione ed esitazioni.
In sostanza, allora, anche la carne è condivisa… nulla posso vivere da solo, isolato, senza rendere il mondo segretamente migliore o peggiore. Proprio in virtù di questa unicità della carne in tutti i tempi e in tutti i luoghi del mondo, il Cristo risorto salva il genere umano dal continuo errore, che si ripete inalterato nella storia: figlio dell’uomo nella sua carne ereditata da Maria, e Figlio di Dio perché generato dallo Spirito, senza opporsi alla Croce, ha riconciliato con lo Spirito, nella sua carne, ogni carne.
Gesù di Nazaret, nato nella carne, in una notte di più di 2000 anni fa è l’ultima vittima sacrificale.
Se non l’abbiamo visto, se non l’abbiamo sentito, se non abbiamo capito, siamo ancora pagani.

E non l’abbiamo capito bene, se ancora di anno in anno, di stagione in stagione, i bambini continuano a morire nelle guerre, ad affogare nel mediterraneo, ad essere abusati e torturati nella carne.

Paolo disse di se stesso: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa.” (Colossesi 1,24). Di che cosa era mai lieto Paolo nelle sofferenze che sopportava nella sua carne? Come faceva a dire una cosa simile? Io credo considerasse lietamente le sofferenze, perché gli sembravano un prezzo a lui accessibile, affinché l’umanità si liberasse del meccanismo sacrificale, rinnovantesi dai tempi di Caino e Abele.

Se noi continuiamo con indifferenza ad utilizzare espressioni come “vittime collaterali”, “carichi residuali di migranti”, “guerra necessaria”, operiamo un’inversione di significato all’interno del linguaggio e indirizziamo il pensiero (e l’azione) nel verso opposto al progetto cristiano: diamo per possibile la prosecuzione del meccanismo attraverso il quale Gesù è stato condannato a morte e, implicitamente, sempre in virtù dell’unicità della carne, ce ne rendiamo complici.

Vi auguro – e mi auguro – di avere il coraggio di riconoscere chi siamo, da dove veniamo e di scorgere in ciascuno l’unico e il comune che ci lega l’un l’altro; auguro la pace a tutti coloro che giorno dopo giorno, ciascuno per la propria parte, offrendosi al Padre in Cristo, lavorano per riconciliare nella propria carne ogni carne con Dio.

Buon Natale!

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Identità

Grazia a voi e pace da Dio

18 dicembre 2022 – IV Domenica di Avvento

Chi sono?

Ritorna l’eterna domanda esistenziale: la risposta determina la mia vita.
A questa domanda fondamentale forse se ne dovrebbero aggiungere altre due. Chi è Gesù? Chi sono gli altri per me?
Nel saluto di apertura della Lettera ai Romani, Paolo espone le sue risposte a queste tre domande. Come si percepisce? Come vede Gesù? Come vede i cristiani a cui scrive? 
Paolo è un servitore di Gesù, a sua disposizione, senza beni propri; sa di essere chiamato da Dio. Non ha preso lui l’iniziativa di servire Dio, è stato “reclutato”, chiamato.
Gesù è per lui Uomo, figlio di Davide; Messia; Dio, figlio di Dio. Risorto. Signore.
I Romani, cui è stato annunciato il vangelo sono chiamati, come lui, come Paolo; sono persone che imparano a dire: “Signore”: destinati/chiamati ad essere santi, consacrati, appartenenti a Dio, Figli di Dio.
Ed è bello sentirsi: “l’amato di Dio”.
Vedere Gesù come Paolo lo vede è avere la vita stravolta.
Gesù è la Buona Novella e questo è il leitmotiv di tutta la lettera ai Romani; come ti vedi? Come vedi Gesù Cristo? Come vedi gli altri? Dimmi cosa ne pensi e saprai chi sei. Conoscerai la tua identità.

Il Vangelo di Matteo di questa domenica parla di un altro uomo, capace di vivere la propria identità fino in fondo: Giuseppe. Il testo ci fornisce poche informazioni su di lui. Viene presentato come un uomo giusto; nell’Antico Testamento essere giusti non significa rispettare perfettamente la Legge ebraica – cosa non alla portata di tutti – ma significa vivere sotto lo sguardo di Dio e avere quell’onestà intellettuale che non viene ingannata dalla realtà del peccato.
Quando un giovane uomo e una giovane donna si fidanzavano, erano già considerati coniugi; rompere un fidanzamento equivaleva a un ripudio, l’unica differenza tra il fidanzamento e il matrimonio era la questione dei rapporti sessuali; in sintesi, il promesso sposo doveva rimanere casto fino al momento di andare a vivere nella stessa casa, il matrimonio vero e proprio. Per una ragazza fidanzata rimanere incinta prima del matrimonio era inaccettabile. La Legge prevedeva la lapidazione in questi casi e se Giuseppe l’avesse ripudiata pubblicamente avrebbe dovuto scagliare la prima pietra.
Giuseppe rinuncia a denunciare Maria ai capi religiosi, però si prepara a mandarla via, in tutta discrezione, perché non subisca la condanna e/o il pregiudizio altrui.
Giuseppe, dunque, non segue la Legge alla lettera, se l’avesse seguita, avrebbe dovuto ripudiare pubblicamente Maria. Non lo fa.
I Vangeli non dicono molto su di lui, ma a pensarci bene non soltanto Maria ha ascoltato le parole di un angelo; anche Giuseppe ha ascoltato le parole dell’angelo apparsogli in sogno. Era l’angelo del Signore, non una questione secondaria. L’angelo aveva appellato Giuseppe “figlio di Davide”, attestandone l’origine regale: figlio, discendente, del re Davide.
L’angelo non annuncia a Giuseppe la nascita di un figlio, gli chiede semplicemente di non avere paura a tenere con sé Maria, sua moglie, perché il figlio che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. L’angelo dice ancora un’altra cosa: Giuseppe deve dare il nome “Gesù” al bambino che sta per nascere, perché salverà il suo popolo. Nel nome è riassunto tutto il ministero del Salvatore. È quindi responsabilità di Giuseppe dare il nome a Gesù; Giuseppe incarna la paternità. E proprio lui, che è stato appellato dall’angelo “figlio di Davide”, sa bene di portare un nome intimamente legato alla tradizione, quello di Giuseppe, figlio di Giacobbe, colui che conosce il significato dei sogni. E Giuseppe, lo sposo di Maria, ha la sua rivelazione proprio in sogno. Dev’essere stata un’esperienza fortissima. Tanto che obbedisce senza mezzi termini, così come anche Maria aveva fatto.
Giuseppe non è l’anzianotto pallido e triste, povero, mite e sofferente, per lo più rappresentato nei nostri presepi, che mese dopo mese, vede gonfiarsi il ventre della sua amata di una creatura che non è la sua. Giuseppe non dubita di Maria, la ama e ha la stessa maturità di sua moglie, perchè sa come stanno le cose fin dall’inizio. Il suo unico dubbio probabilmente è capire se la volontà di Dio prevede che lui abiti con sua moglie, nella stessa casa. E Dio glielo fa sapere: lo vuole.
Maria e Giuseppe vivono insieme, uniti, crescendo il frutto dello spirito. Entrambi conoscono la loro identità di figli di Dio. Come Paolo.

E se alla fine scoprissimo che ogni figlio, molto prima di essere frutto dell’amore tra due esseri è dono dell’altissimo, figlio di Dio, e che ogni genitore appartiene alla stessa sorgente di vita di ogni figlio?
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di femminicidio? 
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di bambini abbandonati?
Cosa potrebbe dire questa storia alle tante storie di matrimoni e convivenze drammatiche?

Qual è la nostra identità?

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Scarica qui il commento al Vangelo del 17/12/2019

Canne al vento

Che cosa siete andati a vedere nel deserto?
Una canna sbattuta dal vento?

11 dicembre 2022 – terza Domenica di Avvento
Riflessioni su Mt 11,2-11 e Gc 5,7-10

“Sei proprio  tu quello che stiamo aspettando?”
Proveniente da tutti i tipi di prigione, questa domanda brucia sulle labbra di molti, cuori a brandelli, coscienze spezzate aspettano una risposta. In risposta agli inviati di Giovanni, Gesù parla, testimoniando ciò che sta accadendo.
Ora, mi chiedo, dai nostri (eventuali) confinamenti, noti e meno noti, personali o comunitari, a chi vorremmo inviare qualcuno per chiedere se il Nazareno è proprio colui che stiamo aspettando? Lo si potrebbe domandare per se stessi, o, come nel caso del Battista, anche per tutti coloro che riteniamo facciano parte del nostro ambiente.
Da quale tipo di reclusione viene una persona che pone una simile domanda?
Oggi nessuno chiederebbe ad un altro “Sei tu il messia?”. Eppure l’essenza dell’aspettativa alla base di tanti tentativi di liberazione è sempre la stessa: “Sei proprio tu la persona che libererà me e i miei cari (il mio prossimo più prossimo) da tutti i legacci nei quali mi trovo?”.
Ad un livello via via sempre più materiale e terreno, molto meno universale, potremmo chiedere: “È proprio questo il gruppo, l’associazione, il partito, oppure il maestro spirituale, il coniuge, il compagno, che stavo aspettando”.

Jacques Brel probabilmente aveva sentito la stessa pressione e l’urgenza di questa domanda quando scriveva la sua canzone L’Homme dans la cité:
“A patto che un uomo venga da noi alle porte della città […] che l’amore sia il suo regno e la speranza il suo ospite […] E che non sia un balsamo, ma una forza, una chiarezza lucida e che la sua collera sia giusta, giovane e bella come la tempesta; che non sia mai vecchio o saggio e scacci dal tempio lo scrittore senza opinioni, mercante del nulla, mercante di emozioni […] prima che gli altri uomini che vivono in città, umiliati, con la speranza ferita e appesantita dalla loro collera fredda, erigano nuove barricate nel vuoto delle notti.”

L’uomo che ci raggiunge alle porte della nostra città, della nostra persona, della nostra fortezza, quello che porta l’amore e la libertà – e anche la collera del giusto – non è solo il Cristo, ma ogni “figlio dell’uomo”; e l’uno e l’altro rischiano, come milioni di persone anche oggi, di non riuscire ad entrare a causa di muri, barriere e frontiere erette di giorno e di notte, da chi si ritiene cittadino unico e di diritto; in un attimo sorgono le barriere, a riprova del fatto che non tutto ciò che avviene sotto il sole nel nostro campo è frutto di un piccolo seme accolto, coltivato, curato e lasciato crescere.
Se sentiamo il bisogno di porre a chicchessia una domanda simile a quella del Battista e siamo credenti, vuol dire che quel Gesù che abbiamo dinanzi ai nostri occhi non corrisponde al messia che ci eravamo immaginati.
Ma a chi eravamo andati dietro nel deserto della nostra vita? A una banderuola? Ad un cortigiano? Oppure autenticamente ad un profeta? Se eravamo andati dietro ad un profeta come Giovanni, allora possiamo stare tranquilli, perché quello è il più grande di tutti. Di conseguenza, possiamo considerarci beati, se non ci scandalizziamo ora del Messia che quel profeta ha annunciato. Certo, se Dio avesse lasciato a noi il compito di designare il messia, non avremmo immaginato un falegname, né sacerdote, né intellettuale, tanto meno benestante. Come lo avremmo voluto? Come un mago che ci rende ricchi, immortali, perennemente giovani, in salute e pieni di forze?
Eppure i ciechi vedono, gli storpi camminano, i sordi odono, i morti risuscitano.
Quale messia stiamo aspettando?
Gesù non persegue l’eliminazione delle sofferenza: ha offerto a ciascuno direttamente gli strumenti per trasformarla, rovesciarla e spezzare tutte le catene immaginarie. Questo è Gesù di Nazaret, il Cristo, il Messia che attendiamo a Natale.

Piogge d’autunno e piogge di primavera ci saranno in ogni caso, per questo Giacomo predica la pazienza dell’agricoltore nell’aspettare i frutti del suo lavoro. Il Signore ci visita continuamente, ogni giorno cammina accanto a noi, ma neanche lo riconosciamo. Sarebbe già prova di grande lealtà mandare qualcuno a chiedergli: “Ma se proprio tu, o devo aspettarne un altro?” I reclusi non possono andare personalmente a fare domande, tanto quanto ciechi, storpi, sordi, e morti. Non rimane loro che “mandare a chiedere”.
Tramite la preghiera, ma anche tramite persone incontrate apparentemente per caso: i nostri inviati, discepoli del Cristo.
La pazienza e l’attesa sono l’opposto delle nostre più comuni abitudini che esigono il “tutto subito”, e anche prima: in tempo reale…
Gli antichi solevano dire “dai tempo al tempo”… nel frattempo sapevano spesso cosa fare in attesa del raccolto. Non si può accelerare la crescita delle piante tirandole su per le foglie, magari senza prendersene cura. Non serve “lamentarsi” l’uno con l’altro perché quelle non vengono su in un batter d’occhio…
Sulle spalle degli inviati, dei discepoli, oggi, la responsabilità di non travisare i segni, di non giudicare e di essere misericordiosi, di domare la lingua.

Dall’amore che avremo gli uni per gli altri saremo riconosciuti come Suoi discepoli (Gv 13,35).

NB: il titolo di questo scritto riprende volontariamente il titolo del romanzo di Grazia Deledda. In copertina foto di “Il colpo di vento” di Jean Baptiste Camille Corot (1865); scarica qui le riflessioni sul Vangelo della Terza Domenica di Avvento scritte nel 2019.

Diseredati o eredi?

Le genti glorificano Dio per la sua misericordia

4 dicembre 2022 – Seconda Domenica di Avvento
Riflessioni su Mt 3,1-12 e Rm 15,4-9

La forza illuminante della seconda lettura di questa Domenica di Avvento consiste nell’esplicita dichiarazione che il Cristo, in primo luogo, è diventato “servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri”. Non si è fermato solo a questo: a tutti gli altri, che non appartengono né geograficamente, né per cultura, né per tradizione al popolo ebraico basta una sola parola, che riassume il senso della necessaria comparsa sulla terra di Gesù di Nazaret: “misericordia”. La misericordia di Dio, di cui parla Paolo, non è trattamento esclusivo riservato ai figli di Abramo, tali per tradizione e cultura, bensì privilegio ed eredità dell’intero genere umano. Infatti se, sul serio, impariamo a riservare parte del nostro tempo a “tutto ciò che è stato scritto prima di noi” e proprio “per nostra istruzione”, i frutti saranno perseveranza e consolazione che tengono viva la speranza.
L’Avvento del Messia unifica sotto gli occhi degli uomini l’intero genere umano, al quale è offerta in dono la salvezza. Rendere gloria a Dio è l’unica risposta possibile a un simile dono. Per coloro che hanno fede, evidentemente.
Come si rende gloria a Dio?
La specifica qualità dell’accoglienza, della convivenza e della fraternità sul modello del comportamento di Gesù di Nazaret, completa il nostro modo di rendere gloria a Dio.
E in quale modo dovremmo rendercene conto tutti?
Il punto di partenza è sempre porsi delle domande sulla nostra personale disposizione all’accoglienza del prossimo, intesa soprattutto come solidarietà fattiva nei confronti dei più deboli.
So che la questione principale deriva sempre dal vivere e accettare le differenze.
Potremmo sentirci come Giovanni Battista: “Voce di uno che grida nel deserto”.
Potremmo condividere il suo disappunto verso tutti coloro che si comportano in maniera iniqua, per poi giungere a porre la stessa domanda che il Battista, dalla prigione, manda a fare a Gesù: “Sei proprio tu quello che aspettiamo o dobbiamo aspettarne un altro?” (cfr Vangelo di domenica prossima). Come dire: “Dacci una risposte chiara!”
Come mai Dio non ci distingue e non ci favorisce, non scuote la realtà quotidiana (evidentemente) degli altri, mettendo davanti a loro la nostra stessa concreta (presunta) speranza?
Sin dai tempi di Giovanni Battista, stiamo ancora aspettando la stessa cosa, e oggi le cose non sono messe più chiaramente di ieri. Anche il Battista sembrava sicuro del fatto suo!
Aveva sentito arrivare il tanto atteso cambiamento da molto lontano; lo aveva trovato annunciato nei discorsi dei profeti antichi, aveva abbandonato tutto per prestare la sua voce a Dio e ripetere quei messaggi di altri tempi, aveva denunciato i peccati di farisei, sadducei, scribi e uomini di potere, aveva additato in pubblico i loro crimini. Allo stesso tempo, accompagnava le sue parole con gesti di purificazione e anche Gesù di Nazaret è andato da lui a farsi battezzare!
Eppure, ad un certo punto, Giovanni aspetta in prigione l’esecuzione della sua condanna a morte, senza avere la certezza definitiva che Gesù sia veramente il Messia atteso.  C’erano state, è vero, conversioni individuali, ma il modo in cui Dio gestiva la salvezza dell’intera umanità non era ancora visibile e comprensibile neanche per Giovanni Battista.
Gesù ha predicato un Vangelo i cui termini, secondo molti, sono rivoluzionari, ma la violenza sulla terra non è finita, e la pace non è ancora per tutti. Gesù è stato giustiziato da innocente, come Giovanni. E ancora oggi si muore innocenti per la causa della giustizia.
Forse qualcosa ci sfugge?
Senza dubbio molti pensavano (e pensano) di poter far pressione su Dio con i loro gesti di pentimento. Pensano, forse, che Dio faccia il lavoro degli uomini al posto loro.
Per esempio, quando il Nazareno viene classificato tra i filosofi o i saggi ispirati o i profeti si concretizza proprio questo equivoco. Giovanni aveva ben capito che erano i cuori degli uomini a dover cambiare, non soltanto le loro idee su Dio; se avessero voluto vedere un cambiamento, avrebbero dovuto attuare una vera e propria conversione, attingendo direttamente alla sorgente della misericordia, che è divina. Gli uomini, da soli, non sono misericordiosi. Questo principio si ritrova nelle parole di Gesù, la possibilità di renderlo concreto nei nostri comportamenti è data dallo Spirito di Dio, che continua a soffiare su ciascuno di noi.
Gesù dichiarò Giovanni il più grande dei profeti (Mt 11,11), probabilmente proprio perché aveva centrato il cuore della questione, predicando un battesimo di conversione. Impresa che può avere successo solo attraverso la misericordia. Per tutti e da tutti.
Ogni epoca sembra rinnovare l’archetipo del Battista. Ogni generazione ha visto l’ascesa di gruppi di giovani con idee generose, pronti a cambiare il mondo, pronti a vestirsi in modo diverso rispetto agli altri e a nutrirsi di cibi lontani dal costume tradizionale, tanto quanto potevano esserlo miele e locuste per Giovanni Battista, loro antenato sulla strada della protesta e della generosità.
Le veementi proteste dei giovani di tutte le generazioni si sono unite a quelle di Giovanni, ma siccome per fortuna non hanno incontrato Erode, in parecchi, delusi dalla mancanza di successo dei loro ideali, si sono successivamente rintanati nelle celle del buonismo e del savoir faire di ogni tipo, ancora chiedendosi qui e là come mai le loro idee non abbiano portato frutti migliori.
Mi chiedo, poi, per completezza, perché non sembri che si vada parlando sempre e solo di errorucci di gioventù: e i vari Erode? Dove sono? Cosa li aspetta? Dove potremmo rintracciarli?
Osando andare avanti in questa riflessione, ci potremmo porre la stessa domanda che si poneva il Battista 2000 anni fa? “Quello in cui credo è una mia rappresentazione o è proprio vero?”
Per me, per la mia esperienza, il Cristo e il suo vangelo sono una risposta certa, ma capisco che purtroppo molti non ci credono.
Eppure, se solo osassimo una discesa in quella fortezza blindata che è il nostro cuore, troveremmo, è vero, vanità, egoismo, ignoranza e ogni sorta di cose poco lusinghevoli, ma se, animati da una grazia inaspettata, invece di rinforzare i lucchetti, li trovassimo aperti? Sarebbe la pace. E il cambiamento.
Noi possiamo soltanto non opporci ad “ascoltare” tutti quei sentimenti che presumiamo mettano a rischio l’idea di noi stessi a stento costruita nel tempo, e le nostre rappresentazioni a proposito degli altri. Questo tipo di ascolto porta inevitabilmente a scoprire un altro aspetto, che dice tutt’altro, semplicemente la verità, racconta l’evidenza, rende visibili molte cose.
E se la “verità” non fosse seguita da effetti pacificanti, non sarebbe necessariamente segno di fallimento, quanto piuttosto la conseguenza di una difficoltà estrema a sostenere le proprie contraddizioni, ma è proprio lì che coglieremmo i segni emergenti del Dio misericordioso che risana.
Certo, vorremmo una Chiesa radiosa: è inquieta, minoritaria e contraddittoria.
La vorremmo senza rughe: è anch’essa presa nei vortici della storia e spesso sa di muffa.
La vorremmo audace: a volte è timidissima e avanza al passo dei peccatori che siamo, cioè sta ferma.
È questa la Chiesa che volevi, Signore, o dobbiamo aspettarne un’altra?
Non c’è altro Cristo e non ci sarà altra Chiesa: la salvezza è lì, offerta da Dio, nel volto di un uomo, nel linguaggio degli uomini, al passo degli uomini.
Cristo non viene soltanto per benedire le nostre iniziative, non è soltanto la conclusione dei nostri ragionamenti, e non parla necessariamente nella direzione delle nostre certezze.
Viene a noi con una parola tutta nuova, che legge la nostra storia, la illumina, le dà senso e la orienta definitivamente.
Oggi, come ai tempi del Battista, possiamo comprendere ciò che Cristo compie nel mondo o in noi stessi solo sulla base della sua parola.
Non siamo in una posizione di forza nel mondo, anche se ci sentiamo autentici, perché la posizione del cristiano in questo mondo non è una posizione di forza: è la posizione di chi ama, un cammino di mitezza, di perdono, di pacificazione, di fede, di speranza.
Il segno della presenza di Cristo sarà sempre il nostro esserci, realisti, concreti, attivi, in favore degli ultimi, favorevoli alla caduta di ogni muro tra nazioni, popoli e classi sociali, uniti intorno alla stessa Mensa. Sì, ma anche e soprattutto la comparsa di un altro che a prima vista non riconosceremo, e attorno al quale potremmo chiederci: ma è veramente lui?
È un bene per noi che Dio sia sempre altro da ciò che accanitamente tentiamo di credere, di difendere, talvolta rinforzando le catene attorno al nostro cuore, perfino quando è molto vicino.

Egli è Colui che viene sempre e nei secoli: liberamente, sovranamente, divinamente, amorosamente.
Accetteremo di essere amati? E, quindi, di amare?

NB: scarica qui il commento al Vangelo scritto per l’8 dicembre 2019

In copertina, particolare raffigurante il Battista da un codice miniato, per info clicca qui

Svegli

27 novembre 2022 – Prima Domenica di Avvento
Matteo 24,37-44

A proposito di Romani
Seconda Lettura: Rm 13,11-14a

L’Avvento è attesa del Natale, ricordo di uomini di una volta e della loro speranza in un liberatore, in un salvatore che venga ad illuminare la loro notte.
Paolo parla di un altro tipo di attesa, di un’attesa che non finisce a Natale.
Paolo mi ricorda qualcosa che tutti i cristiani conoscono: la venuta di Gesù Cristo, la sua opera, la sua morte e la sua risurrezione hanno cambiato il volto del mondo; in Occidente, contiamo gli anni dalla data della nascita di Cristo, mostrando che c’è un prima e un dopo la venuta di Gesù Cristo sulla terra, ma questo sistema di “date” oggi rischia di perdere senso, molti lo considerano solo un punto di riferimento cronologico convenzionale nel corso della storia, peraltro quella più recente, non sapendo neanche il giorno e l’ora esatta del “principio” che comunque si perde in un passato nebuloso e arcaico.
Tuttavia, c’è un elemento di verità in questo prima e dopo: un bambino nasce in una stalla, da famiglia umile, insegna a poche migliaia di persone, muore innocente su una croce, inchiodato come un malfattore; in pochi dicono di averlo visto risorto; lascia un’eredità di pensieri, parole, comportamenti e atti, che hanno illuminato i passi di milioni di uomini negli ultimi duemila anni.
Sarebbe ora di svegliarci.
Veramente! Forse, menti lucide e cuori in pace con loro stessi potrebbero riconoscere che anche se c’è in corso la guerra, c’è anche la battaglia decisiva, ma potrebbe non avere la forma immaginata.
Gesù è risorto, ma la lotta, per noi, continua individualmente, prima che si stabilisca il vincitore.
Gli uomini al momento resistono alla luce, hanno preferito le tenebre.
Paolo parla dell’arrivo del giorno, quel “giorno del Signore”, che si ritrova in particolare nei profeti dell’Antico Testamento. È il tempo in cui il Signore manifesta la sua vittoria, ristabilisce il suo regno di giustizia e di pace; Paolo unisce i due sensi della parola giorno: giorno come data e ora precisa, e giorno come avvento della luce contrapposto alla notte. (v.12a)
Noi viviamo in un mondo che è “notturno” secondo due livelli di significato: è notte, perché, rifiutando la luce, siamo impigliati nelle tenebre, ma anche è notte perché le tenebre precedono il giorno. Paolo invita a discernere nella notte che ci circonda i segni del giorno che viene. Cristo – proprio storicamente – ha dato il via alla fine della notte e ha messo in moto l’arrivo del Giorno con la G maiuscola. Noi, da qui, dobbiamo essere i primi raggi, le prime scintille che precedono l’alba della domenica del mondo.
Cosa permette di discernere, tra noi, i primi raggi del sole nella notte? Lo Spirito Santo, presente in noi, rinnova la nostra intelligenza e la nostra comprensione delle cose, ci aiuta a non fidarci delle apparenze deformate dal buio, ma a renderci conto che il giorno in arrivo, inesorabilmente, renderà ogni cosa visibile.

Tuttavia, il testo di Paolo pone un serio problema: “la notte finisce presto”, dice; lo ha detto 2000 anni fa! Cos’è, un quarto d’ora biblico? Simile ai quarti d’ora infiniti delle sale d’attesa?
“Presto”, ma c’è ancora da aspettare molto tempo? Oppure, Paolo si sbagliava, era sicuro che il giorno sarebbe arrivato, ma le cose sono andate un po’ per le lunghe?
Il “presto” di Paolo denota l’urgenza e la speranza, dalla prospettiva di un uomo che improvvisamente ha vissuto l’Avvento del Cristo sulla strada di Damasco. I giorni che passano possono sembrare lunghi, interminabili, possono anche congelarci e privarci dell’orientamento, ma le ultime ore della notte sono già suonate e il “presto” biblico risuona nelle nostre orecchie per dissipare l’illusione che la notte potrebbe durare indefinitamente. Dobbiamo svegliarci! Non rimanere addormentarti, alzarci, per riconoscere i segni dell’alba.
Guardandoci intorno al buio, e vedendo sofferenze, crudeltà, perversioni, potremmo rimanere vittime e finire col dire a noi stessi: non finirà mai! Come si può andare avanti così? A che serve combattere se la vittoria non arriva?
Questa sarebbe una sconfitta terribile.
Occorre lottare contro il sonno e l’influenza della notte, adoperando le armi del giorno. 
Come fare? Prima di rivestirci del Signore Gesù Cristo, dobbiamo toglierci gli abiti notturni, le abitudini che confondono: la carne e i suoi desideri.
Sono quegli eccessi che offuscano l’intelligenza delle cose: mangiare troppo o bere troppo, la dissolutezza che offusca le nostre relazioni. Credo che Paolo abbia in mente ogni sorta di immoralità, ma cita in particolare la dissolutezza, perché quando erriamo in questo campo siamo inclini a pensare che non facciamo del male a nessuno. Usare l’altro per trarne esclusivamente il proprio piacere, a qualsiasi livello venga fatto, è un’assoluta mancanza di rispetto per la persona, segno, prima di tutto, di una nostra personale degradazione.
Le peggiori vesti notturne sono la contesa e la gelosia, perversioni della mente e del cuore, perversioni del pensiero razionale offuscato, e dell’emotività distorta che da quello deriva.
Il rimedio a tutto questo è condensato nella stupefacente espressione: “rivestiti del Signore Gesù Cristo”, di vesti luminose, da giorno, simbolo di una vita orientata verso la giustizia e la misericordia, finalmente liberata da preoccupazioni effimere e/o false, da soddisfazioni tanto passeggere quanto illusorie, da egoismi profondi che generano gelosie, disaffezioni e, peggio del peggio, invidia, ostilità, vendette e guerre.  Si tratta di lasciare che il Cristo trasformi la nostra vita senza combatterlo, senza resistergli, allora semplicemente la nostra esperienza non ruoterà più intorno alle preoccupazioni della “carne”, come fossimo ancora vittime di un equivoco antico a proposito delle nostre reali e concrete possibilità, e di conseguenza, ancora confusi e deliranti nelle aspettative immaginarie. Risultato di una simile condizione è spesso il pessimismo, che conduce al disprezzo verso il prossimo e verso se stessi.
Paolo invita a rimanere saldi nel nostro orientamento spirituale, allontanandoci dall’oscurità per ricevere la luce di Cristo, senza resistergli ulteriormente, diventando ciò che siamo da sempre: figli di Dio. Svegliamoci e usciamo alla luce.

Per ricollegarci al vangelo di oggi, non facciamoci trovare come ai tempi di Noè, inghiottiti dalle vecchie abitudini, anestetizzati all’Avvento del Cristo, annaspanti nella confusione della mente e del cuore, in preda alle più svariate quanto inutili frenesie. Facciamoci trovare svegli, attaccati l’uno all’altro, insieme, in una fragile arca fluttuante, che porti in salvo tutto ciò che di noi è rimasto di fratelli in Cristo e con un piccolo spazio di tempo, libero per l’imprevisto, per il non programmato. 

NB: tramite questo link è possibile scaricare il commento al Vangelo scritto per la Prima Domenica di Avvento nel novembre 2019.


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Tramites 29 novembre 2019

Cristo Re

Ricordati di me

20 novembre 2022 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario
Festa di Cristo Re
Luca, 23,35-43

La violenza è onnipresente: c’è ovviamente la crocifissione di Gesù, ma non è su questo che voglio fermarmi. Prima c’è una folla muta che guarda la scena senza capire. È una delle grandi violenze che la vita fa sperimentare, una violenza sottile, ma molto reale. Possiamo parlare di persone che non capiscono, perché non sono interessate alle grandi domande della vita; diventa più drammatico se si tratta di genitori che non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli, o di gruppi sociali che non capiscono cosa stia succedendo in quel momento all’interno di altri gruppi, o ancora di leader che non si rendono conto delle reali condizioni di vita nei paesi in cui governano o in quelle aree del mondo, che sono influenzate o condizionate dalle loro scelte.
In Palestina, al tempo di Gesù, il governo è condizionato da un’élite politico-religiosa che si beffa di Gesù.
Ci sono sicuramente persone che hanno sperimentato cosa voglia dire essere il bersaglio di una beffa, di una presa in giro malevola e sprezzante.
Quale potrebbe essere l’obiettivo principale nel beffarsi di qualcuno? Probabilmente vanificare le idee di quella persona, cancellarne i contenuti, svalutare ogni atto compiuto da quella persona o in nome di quelle idee. 
E quale reazione potrebbe, quindi, venire a determinarsi?
Le cronache hanno riportato, ad esempio, casi gravissimi di adolescenti che negli ultimi anni hanno innescato sparatorie dentro le loro scuole; si trattava di adolescenti che erano stati derisi per la loro balbuzie o per la loro timidezza: qui la violenza, attraverso l’arma da fuoco, è il macabro risultato, lo sproposito folle, che in ogni caso riflette una violenza verbale e spesso fisica precedentemente subita, come nei casi delle vittime di bullismo.
Nel vangelo di questa domenica è messa ben in rilievo la figura del soldato, che, seguendo l’esempio di scherno attivo nell’élite politico-religiosa, imita i capi e si fa strumento intenzionale e volontario di oltraggio e violenza: una spugna imbevuta di aceto viene offerta al posto dell’acqua da bere ad un moribondo “legalmente” giustiziato.
Forse non ci si ferma mai abbastanza a riflettere su questi orrori.
Paradossalmente, anche uno dei malfattori crocifissi con Gesù si carica dello stesso ruolo rivestito dall’élite politico-religiosa e dal soldato: il “ladrone”, pure lui crocifisso, pure lui nella sofferenza – che dev’essere atroce – si fa beffa di Gesù crocifisso accanto a lui. Non è infamia: è aver vissuto inetti al bene. Trovo questa situazione tristissima, penosa: è la violenza impotente e masochista del piccolo, identificato ormai col pensiero del potente di turno , che perpetua la filosofia della vita come carcere, come ambito mortalmente soffocante in cui l’impossibilità di sottrarsi alle catene si trasforma nell’attivo ridicolizzare ogni tentativo di liberazione: “Re dei Giudei, salva te stesso!” – Non è rivolta, è adesione alle catene.
Ricordo che una volta a Douala vidi fermo al semaforo un furgone della polizia locale con un detenuto a bordo; all’improvviso uscì attraverso la grata uno sputo che atterrò, sfiorando i piedi di una passante. Chi può dire l’odio di cui era carico quello sputo?

Se considero il tutto in blocco, mi sento anch’io così impotente e scoraggiato, che mi viene voglia di scappare o, caso mai, di unirmi al lamento contro questa sinfonia tragica di violenza: “È così, non ci si può far nulla!” – qualcuno dice.
Mi è chiaro, tuttavia, che l’atteggiamento di Gesù non corrisponde al nostro comportamento abituale. Purtroppo la ripartizione liturgica ha tagliato il racconto del Vangelo di oggi, togliendo il versetto di apertura, proprio quello che restituisce il pieno significato a questa parte del dramma messianico: “Padre, perdona loro: non sanno quello che fanno”.
Perdono. Non si tratta di esercitare uno spirito bonario che lascia passare tutto, no!
Perdonare è credere che il cuore di un essere umano, per quanto perfido, possa essere veramente trasformato. Nonostante tutta la violenza che si scatena contro di lui, Gesù crede e vede la possibilità umana di scegliere la salvezza. E, dunque, perdona.
La prova è che uno dei due malfattori crocifissi con lui, cambia atteggiamento:
“Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo Regno”. Quell’uomo è nella memoria di Dio, non è dimenticato da Dio, per questo il Cristo dice: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
All’altro malfattore non viene detto nulla. Siamo troppo lesti e abituati a dividere l’umanità in buoni e cattivi, in premiati e puniti, identificandoci con qualche tipo di severo giudice, munito di criteri validi.
Mi piace credere, basandomi su quel versetto tagliato via, che la memoria di Dio includa tutti coloro per cui noi ogni giorno possiamo ripetere le stesse parole insegnate dal Cristo sulla croce:
“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

La regalità del Cristo, il Cristo Re, consiste nel potere di trasformare i cuori, di volgere ogni essere umano verso il bene, anche quando il rifiuto e la rinuncia personale, causati dall’errore o dalla disperazione impotente appare ragionevole.
La fede nel Cristo Re mi permette di chiedere ancora, oggi, di fronte a tante forme di violenza:
“Gesù, ricordati di noi e del nostro mondo”.

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Verranno giorni

Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa

13 novembre 2022 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Luca 21,5-19

“Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate… vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze… vi saranno anche fatti terrificanti… metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno… sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici.”

Previsioni tutt’altro che rosee; guardando al mondo di oggi potremmo anche dire: “Ci siamo! Ecco che la profezia si è avverata!”
Non manca nulla: ci sono le guerre, i terremoti, le carestie, le epidemie, i fatti terrificanti, le persecuzioni, i tradimenti tra parenti e amici. Quindi potrebbe essere per oggi.
Di molte cose che abbiamo ammirato, in effetti, non è rimasto pietra su pietra. E, peggio ancora, persone alle quali abbiamo voluto bene sono scomparse…Oltretutto, il tempo scivola via come sabbia in una mano: tempus fugit! A guardare bene rimaniamo senza fiato nel vedere le generazioni che inesorabilmente passano; non è facile invecchiare, far fronte alla malattia, perdere la propria autonomia.
Il panorama, quanto mai realistico, pare sufficiente a generare paure, angosce e depressioni.

Anche Luca quando scriveva il suo vangelo, intorno all’anno 85, viveva un periodo di terribili sconvolgimenti, basti pensare alla prima sistematica persecuzione dei cristiani ai tempi di Nerone. Nel 70 Tito aveva distrutto Gerusalemme, raso al suolo il tempio e cancellato lo Stato di Israele. Nel 79 il Vesuvio aveva ricoperto di lava Pompei ed Ercolano…
Quindi non solo noi oggi viviamo l’apocalisse…
Di fronte a questi scenari di angoscia e terrore che si ripetono nella storia, tendiamo a gettarci nelle braccia di qualsiasi “salvatore”: guru religiosi e guru laici, aspiranti stregoni, politici e promotori di sogni. La “salvezza” proposta, la panacea, ha sempre l’aspetto del “paradiso dello sconto”, sconti sulla sofferenza, sull’invecchiamento, sulle merci, pronti a recitare mantra, a nutrirci sano (che sia bio, di Scottona, vegan, senza additivi, con omega 3, 4 e 5), pronti ad introiettare slogan e ad acquistare auto elettriche esosissime… per il miglioramento… non sia mai detto dei profitti, no! Del pianeta!
Attenti a non farvi sviare!
Non facciamoci ingannare dai falsi messia, non diamo loro il potere di manipolarci, servendosi delle nostre paure e alle loro promesse di paradisi fasulli.
Il vangelo di oggi sembra dire anche qualcos’altro. Non facciamoci prendere dall’angoscia; rimaniamo stabili e perseveranti, stabili come le montagne, sia pure nell’incertezza e nella paura, perseveranti nella fiducia e vivremo, neanche un capello cadrà dalla nostra testa, senza la volontà del Signore.
Avremo la stabilità delle montagne? Tanta saggezza? Portando il peso del tempo presente, nonostante i disastri, la sofferenza e la malattia, continuando a vivere ogni giorno nella luce? Cercando di portarla con noi nel mondo e mostrarla, perché altri la vedano?
Questo è il programma che propone il Cristo: Lui darà lingua e sapienza.
Se il Signore parla in termini apocalittici, è per collocare il tempo che ci è stato dato nella giusta dimensione e nella giusta prospettiva: questo tempo è un dono da usare per la salvezza di tutti.
Il Vangelo di oggi non è un testo sulla fine dei tempi, ma una parola cruda e realistica che illustra concretamente la condizione del mondo in ogni tempo e invita tutti a costruire ora un mondo nuovo, un mondo di giustizia, pace e fraternità. Nessuno potrà dire di non essere stato avvisato. C’è stata, c’è e ci sarà occasione di essere testimoni del Cristo in ogni tempo, anche senza essere martiri. Tutti i giorni.
Pietro disse ai primi cristiani: “Siate sempre pronti a rendere conto a quanti vi chiedono della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).
Noi rendiamo testimonianza e preghiamo non perché abbiamo paura di ciò che sta accadendo intorno a noi o perché siamo scoraggiati, delusi e frustrati, ma perché vogliamo ricevere la forza della speranza, la lingua e la sapienza, per rimanere saldi nella tempesta, per incoraggiare chi vive nella paura, per costruire un mondo migliore, un mondo all’altezza della vita che ci è stata data.

“È dalla tua perseveranza che otterrai la vita”.

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Domande strane

Di chi sarà moglie?

6 novembre 2022 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario
Luca 20, 27-38

Di chi sarò marito?
Questa è la domanda dei sadducei, e forse anche la nostra.
I sadducei sono meno conosciuti dei farisei. Il loro nome si riferisce ai figli di Saddoq, una stirpe di sacerdoti fedeli menzionati nel libro di Ezechiele. I Vangeli ne parlano relativamente poco, in quanto, al momento della loro stesura, i sadducei non fanno più parte del panorama religioso perché il tempio di Gerusalemme dove officiavano è stato distrutto, ma bisogna tenere presente che al tempo di Gesù essi costituivano una corrente del giudaismo a pieno titolo, allo stesso modo dei farisei e non ammettevano alcuni elementi della fede che si erano via via sviluppati nell’ebraismo, in quanto non apparivano nella Torah. In particolare, avversavano la risurrezione dei morti e l’esistenza degli angeli (cfr At 23,8).
La loro questione è dunque un caso particolare di una casistica più generale, presentata dagli evangelisti probabilmente anche per illustrare con chiarezza la decisa ostilità delle autorità del popolo che Gesù dovette affrontare durante la vita pubblica. Gli erano contrarie tutte le autorità religiose: sommi sacerdoti, scribi e anziani, soprattutto perché a quei tempi e in quei luoghi l’autorità anche governativa non poteva essere esercitata se non in nome di Dio; per gli Israeliti era attribuita direttamente da Dio.
La questione posta a Gesù è ovviamente un gioco mentale e l’esempio è così esagerato da non avere alcuna relazione con la realtà. Eppure, per qualche verso, la domanda dei Sadducei può mettere a disagio anche noi oggi. Come far fronte a questa logica tanto implacabile, quanto solo apparentemente razionale?Sembrano domande infantili, ma le incontro concretamente tutti i giorni.
Come sarà lassù? Sarà così grande da starci tutti? Il Cielo, o il lassù, in cosa consiste? Quanti anni avrò da risorto? Ci riconosceremo?
Che sette fratelli abbiano avuto la stessa moglie è un po’ esagerato, ma esistono oggi molte persone che hanno avuto o hanno più di un coniuge nella loro vita. Dunque, con chi risulteranno sposati per l’eternità? Con quale moglie o marito staranno? Con la prima, l’ultima o con l’amante? Chissà quante sorprese … Colpi di scena? Esiti inattesi?
La risposta di Gesù invita ovviamente a desistere da simili fantasie, a non lasciarsi irretire da tali ragionamenti, logici solo in apparenza, in realtà fuorvianti – e probabilmente utilizzati solo per evitare l’unica domanda fondamentale, che intanto si dovrebbe porre a se stessi: “Io, ci credo o no nella risurrezione?”.

Cosa si debba credere e poi ciò che debbano credere gli altri non può diventare un problema di logica tra me e te, sarebbe come se Cappuccetto Rosso e il cacciatore si mettessero a discutere del futuro della nonna… o come sarebbero andate le cose col “metaverso” … o quale soluzione illuminante avrebbe potuto offrire l’algoritmo…

Sull’aldilà, come su tante cose, Dio non ci ha ancora detto tutto… per fortuna. Grazie a Dio! Dobbiamo accettare che, quando si parla di risurrezione e di vita eterna, e quindi in definitiva di Dio e di vita, si fa un salto di qualità tale, che la nostra mente è assolutamente incapace di formarsi un’immagine e ancor meno di darsi una spiegazione di queste realtà. Come creature viviamo nel tempo e quindi pensiamo per categorie inevitabilmente da inserirsi nello scorrere di una dimensione temporale come tutti la conosciamo, fatta di prima e dopo, nascita e morte, giovinezza e vecchiaia, luce e ombra, freddo e caldo. La trasformazione di queste condizioni a priori del nostro sperimentare è costante ed inseparabile dall’esistenza. Io credo che il nostro “reale” sia solo il riflesso di un reale, che appartiene alla sfera del Dio vivente in eterno.

Eppure, noi esseri umani abbiamo accesso a questa Realtà, perché l’unica “cosa” che abbiamo sempre a portata di mano e di cuore, come dice Gesù, è il rapporto con questo Dio. Abramo, Isacco e Giacobbe, entrati nell’Alleanza che Dio ha stabilito con loro, non possono scomparire, perché il loro Dio è lo stesso Dio di tutti e il Suo rapporto, il Suo legame d’amore con loro non muore, così come non morirà per tutti coloro che erano, sono e saranno chiamati ad entrare nella stessa Alleanza.
Questo vale per tutti, oggi, concretamente e realmente: entrati nel tempo della risurrezione, siamo Figli di un Dio risorto, vivi della stessa vita di Dio. Questa relazione con il Dio vivente relativizza ogni altro rapporto instaurato nel tempo finora trascorso, anzi lo integra, lo riordina e lo realizza.
In Cielo, cioè in questa condizione di risurrezione nella quale possiamo entrare ogni giorno e dove saremo per sempre alla fine dei nostri giorni, ritroveremo “eternizzato” tutto l’amore che saremo stati capaci di dare, ma soprattutto, tutto l’amore che il Cristo ha riversato sul mondo, incarnandosi e accettando di condividere la sorte di ogni donna e di ogni uomo perché noi potessimo conoscerlo, tramandare la memoria di quegli eventi ed essere partecipi del suo piano di salvezza.
Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù è lo stesso dei miei genitori e dei miei antenati, di tutte le persone a cui la vita mi ha legato.
Credere per mezzo di Gesù Cristo Risorto nella nostra risurrezione vuol dire per me leggere la storia delle generazioni alla luce del soffio creativo che genera e agisce in esse e attraverso di esse; vuol dire affermare di trarre la nostra origine da Dio, di ricevere da Lui la nostra identità di figli e figlie, pur essendo figli in questo mondo. Il Dio di Gesù è il Dio dei vivi, perché se da Lui ereditiamo il respiro, come sarebbe possibile non vivere per sempre di questo respiro?
Se, per pura grazia, aderiamo a questo, sappiamo che alcune relazioni sono peculiari del mondo, così come tutte quelle che trasmettono il respiro da una generazione all’altra.
Nella mia, nella nostra speranza, il rapporto di tutti i rapporti è quello della filiazione divina che dura per sempre ed è questo stesso soffio creativo che misteriosamente ci unisce sulla terra e ci fa desiderare ardentemente, quotidianamente, l’avvento di una civiltà aperta all’incorruttibile.
Gesù ha promesso la sua presenza fino al compimento della storia, ma rimane un testimone impotente in mezzo a noi, perché la Sua come la nostra risurrezione, così come la vita, non è oggetto di dimostrazione, ma di speranza e poi di esperienza.
“Ama e vivrai”. Chi potrebbe separare chi ama dall’Amore, anche se non riuscisse a farsi una ragione della risurrezione?
Quindi, proviamo costantemente ad amare fino alla fine come Gesù ha amato e “il tempo ce lo dirà”.

Dire a qualcuno “ti amo!” è come dirgli “non morirai!”.
La mia speranza è che ciascuno possa riuscire ad ascoltare il Signore che sussurra il suo “ti amo!”
Sia benedetto questo Dio, per essere la fonte di tutta la vita che ho finora incontrato e vissuto.
Posso solo chiedergli di non stancarsi mai di insegnarmi a vivere oggi alla Sua presenza, in comunione con tutti i Suoi figli.

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